Home » Vi racconto la felicità dell’estate di provincia, lunga e senza mare

Vi racconto la felicità dell’estate di provincia, lunga e senza mare

Un viaggio tra i ricordi, ispirato da un giro al mercato del Capo di Palermo

L’inizio dell’estate coincideva con la raccolta delle amarene. Alle Serre, nella proprietà degli zii Concettina e Gasparino, il fratello adorato di  nonna Stella, c’era un albero curvo sotto il peso dei frutti maturi. Noi bimbi osservavamo i grandi raccoglierle e invitarci alla pazienza. Le amarene non erano amabili come le ciliegie e per mangiarle occorreva aspettare che finissero sotto lo sciroppo di zucchero. Era un via vai di pentoloni e barattoli di vetro a chiusura ermetica. Le zie armeggiavano in cucina, con i loro prendisole a palloncino, vuoi verde smeraldo vuoi colore del sole. Ci davano le spalle, mentre preparavano una delizia dal sapore incisivo. Ai bimbi le amarene sciroppate venivano servite con la gazzosa Tomarchio, i grandi le sorseggiavano insieme al vino di campagna o con due dita di vermout ghiacciato. Questo ricordo é inciampato tra i miei pensieri l’altro giorno. Passavo dal mercato del Capo ed ecco un banchetto zeppo di amarene. Ho rivisto le estati da bambina. Che tempo benedetto l’infanzia e cosa non si darebbe per tornare a passeggiare, anche solo una volta, tra i sentieri dell’essere piccini.

Le mie estati da bambina

Le mie estati erano lente, lunghe e piene di rumori familiari. L’intrattenimento elettronico era fatto solo di radio e di tv.  Peraltro a piccole dosi. Una replica di Love boat per sognare una crociera come i ricchi del paese e soprattutto il Festivalbar. Ci incollavamo in dieci davanti al 24 pollici a canticchiare le hit di Spagna, dei Duran Duran, degli Spandau Ballet e di Scialpi (che, pareva il principe azzurro delle favole). Le mie erano estati della provincia lontana dal mare. Nell’entroterra i mesi del caldo sono una linea retta. Hanno un tempo dilatato e senza meta. C’era la noia, che aveva però una sua poetica: quella dell’immaginare, del perdersi ad osservare la forma delle nuvole, del cercare tesori tra bulbi di cipolle selvatiche, arbusti di sommacco e qualche rara pietra focaia. Gli adulti intorno ai bimbi erano tanti e questo consentiva a noi piccini un ampio margine di libertà. Nessuno ci stava con il fiato sul collo, sebbene fossimo tutti ben custoditi.

Può interessarti:  Emmanuele e Katya: il nostro matrimonio italo russo

Andare al mare era un evento, che ti concedevi una domenica sì e una no, tra la confusione dei preparativi e il caos in spiaggia. Ma questa è un’altra storia.

L’estate era svegliarsi tardi, infilarsi la maglietta rossa di cotone filato allacciata al collo, i pantaloncini e i sandali con la suola di legno e aspettare che si facessero le tre del pomeriggio. A quell’ora veniva a prendermi nonno Raffaele con la sua Fiat 127 bordò e mi portava alle Serre: il posto più bello del mondo. Cos’erano le Serre?  Erano e sono un quartiere di collina, colorato di vigneti, ulivi e frutti di stagione, qua e là qualche villetta e poi le vecchie robbe dei contadini e quella fontana, “a brivatura”, che era il punto cardinale di quella sorta di villaggio verde e pieno di sali scendi.

Un fazzoletto di terra ed un giardino

Alle Serre, i miei nonni avevano ereditato un fazzoletto di terra, dove avevano costruito una “robba” e coltivato un giardino, che nonna Stella curava come se fosse il luogo più pregiato dell’umanità. C’erano le rose, i garofani, le margherite, i gladioli e soprattutto c’era il gelsomino. Era la pianta che nonna Stella amava di più. Le faceva pensare a Sant’Antonio da Padova. Quel gelsomino malgrado i decenni, le ruspe, i temporali e le soleggiate e ancora là a ricordarci che nella vita alcune cose resistono, malgrado il tentativo di strappargli perfino le radici.

Le Serre era “u gaddrinaru” dove ruzzolavano una decina di pollastre. Io e mia sorella mangiavamo le uova “fresche”, tal quali, calde calde, un attimo dopo che la gallina le aveva deposte. C’era l’albero di azzeruole e dietro un roveto carico di more, che ad agosto diventavano un motivo di felicità. Con le mie cugine facevamo a gara a chi ne raccoglieva di più, quindi sputavamo sopra i frutti nerissimi e li pulivamo con le nostra dita sporche. Quindi le divoravamo sotto il caldo cocente del primo pomeriggio, contandoci le croste secche sulle ginocchia. Ogni giorno eravamo reduci da corse, “acchiaperella” e nascondino. Le Serre erano giornate interminabili, trascorse a giocare a Monopoli, a raccogliere pigne, che venivano giù dal poderoso albero della campagna vicina, quella dei palermitani. Loro erano gli ospiti d’onore della nostra tribù estiva. Arrivavano a fine agosto, per una decina di giorni appena e portavano in provincia una ventata di città. I palermitani erano lo zio Gnazzinu, un uomo brioso, un narratore instancabile e godereccio, che raccontava ogni cosa per iperbole. La moglie, in contraltare, era una donna silenziosa, una figura da dietro le quinte, tant’è che non ne ricordo neppure il nome. I tre figli: Simonetta, Raffaella e Giuseppe erano simpatici, affabili, modesti. Provavano a fare i paesani, giusto per mischiarsi meglio al nostro clan, ma avevano addosso il profumo irresistibile dei ragazzi di città. Li ascoltavo a occhi sgranati quando parlavano delle gite a Ustica, dei giri in barca, delle passeggiate a Mondello, dei fidanzati lasciati in città e dei morti sparati nella Palermo degli anni ’80.

Può interessarti:  I bimbi dell’Istituto Sant’Anna di Palermo donano i giochi didattici ai piccoli dell’Onco-ematologia pediatrica del Civico di Palermo

“Io a Palermo non ci andrò mai. Mi spaventa!”

Pensavo tra me e me e nel frattempo mangiavo un pezzo di anguria e facevo domande e ancora domande. Poi c’era Pinella, che é stata la prima a rendermi l’idea della donna iconica (insieme alla Carrà). Era elegante e spregiudicata. Non so perché le donne di famiglia la definissero bruttina. Per me era e rimane una donna bellissima. Magra, ben proporzionata, vestita alla cittadina, il caschetto biondo platino  e gli occhiali con le lenti fumé le davano una certa aria da attrice in villeggiatura. Quando arrivava in campagna da Palermo a bordo di una decapé pensavo che dietro doveva per forza esserci un paparazzo e che saremmo finiti tutti tra le pagine di Gente. Da ragazza si era trasferita in città al seguito di un amore che ai più pareva impossibile. Aveva avuto il coraggio di sposare un uomo divorziato e molto più grande di lei, con il quale era stata una donna felice. Rimasta vedova abbastanza giovane, non si era più risposata. Quando tornava in estate alle Serre mi raccontava del suo grande amore e poi svirgolava sulle vacanze, sulla casa a Lipari e sulle serate al night. Non mi spiegava con esattezza cosa fosse il night e io non osavo chiedere spiegazioni, perché lei era un idolo e gli idoli, se ti danno confidenza, li ascolti e basta. Sognavo però di andarci pure io al night di Palermo. Prima o poi.

Le Serre sono questi e altri ricordi. La mia paura dei cani di zio Pino, il pozzo, a pochi passi dal cancello. Seppure fosse sigillato e impenetrabile, vigeva il divieto: mai avvicinarsi! La triste storia di Vermicino era ancora una paura calda e gelida allo stesso tempo. C’erano i sentieri, dove andavamo a raccogliere farfalle o “babbaluci”, i tramonti sul monte Sutera, da guardare sul muretto e i pellegrinaggi alla “Figuredda”, un’edicola votiva della Madonna Immacolata, installata appena fuori dal cancello, a protezione di quella proprietà, dei vigneti, degli alberi, dei fiori, della gente e di quella piccola felicità, di cui quel luogo era custode. Le Serre eravamo noi: io, mia sorella, i miei cugini, gli adulti e i vecchi – che poi tanto vecchi non erano – i nonni Stella e Raffaele, gli zii Concettina e Gasparino e la zza Cinuzza, che era sempre vestita di nero e con i tessuti pesanti, anche ad agosto inoltrato.  Io ero piccina eppure conoscevo i nomi delle piante, dei fiori, degli insetti, delle erbe selvatiche e sapevo anche inquadrare le costellazioni. Era l’estate,  di provincia e senza mare, che pareva una linea retta, con il suo tempo lentissimo, che pareva infinito e che é passato troppo in fretta.

Può interessarti:  La maturità ai tempi del covid raccontata dagli studenti

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WC Captcha 55 + = 57