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L’ultima sera, il sugo di Carnevale e il tempo che fu

Un giorno piccino che diventava solenne e la gioia sincera della vita di provincia

L’ultima sera nonna Tatà dava il meglio di sé.

La casa all’angolo, che era fumigante di perenne, quel giorno entrava in fermento già alle prime luci dell‘alba.

Nell’attesa della quarantina di commensali che sarebbero arrivati per cena, nonna Tatà iniziava a preparare il sugo di Carnevale, con una ricetta che ripercorreva secoli di storia e una tradizione di carnezzieri, che mia nonna viveva come una forma d’arte.

Ecco fuori dal “tinello” il pentolone gigantesco, alto al punto che una volta uno dei miei cugini più piccoli volle fare la prova e ci entró dentro.

Via con il soffritto di carote, cipolla, aglio e “accia”, che sarebbe il gambo del sedano, olio “di casa” e via sul fuoco a dare vita a quella danza di umori, che si installano nelle narici e lí rimangono, tant’è che possono trascorrere pure dei decenni, ma se torna uno di quei sentori, ecco il diario della nostalgia salire dal naso verso la mente e ridiscendere fino al cuore.

In trionfo sul tavolo della cucina la chirurgia dei tagli di carne per il sugo: il primo e il secondo di manzo, la cotenna di maiale, la pancetta, le costolette e qualche nodo di salsiccia. Tuffata la carne nel soffritto, la spruzzata di vino rosso di campagna, l’asciattu di pomodoro dell’estate e quindi la passata dal sapore affumicato, sentore della preparazione agostana, a girare i pentoloni sopra la legna ad ardere tra il fuoco.

Quel sugo cucinava quasi per un giorno intero, a bassa fiamma, regalandosi la lentezza, che é la soluzione perché le cose riescano bene.
Nonna rimestava e nel frattempo faceva il suo giro di telefonate. Raccomandava a noi tutti, componenti la grande famiglia che lei riusciva a tenere unita, di essere presenti.

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”Non mancare, mi raccomando. Che sono vecchia. Quest’anno ci sono, il prossimo non si sa!”

Ubbidivamo tutti, certi che quella sua scaramanzia fosse un’ipoteca che metteva sopra il futuro.

A forza di temere che quello fosse l’ultimo anno di noi tutti insieme, nonna Tatà campó per quasi novantacinque primavere, riuscendo nell’obiettivo di tenere insieme una grande famiglia, sí complessa, che aveva però nella casa all’angolo il suo asse: il focolare d’inverno e il refrigerio in tempo d’estate.

Dicevo della liturgia “dell’ultima sera”

Nel pomeriggio la nonna con le zie preparavano la sala da pranzo: uno stanzone gigantesco, alle pareti una carta scolorita, con fiori provenzali e qua e là qualche disegno, che era l’impronta del passaggio di noi tanti “nipotini”.

Il salone era freddissimo e servivano più di una stufa al gas per temprare le basse temperature di febbraio. Quell’odore di gas é un altro caposaldo della mia memoria “proustiana”. Se solo mi passa sotto il naso, devo trattenere le lacrime e solo io so il perché.
Sullo sparecchiatavola ecco i cestini pieni di finocchi, ravanelli, mandarini tardivi, arance e mele.
Apparecchiata la tavola con un’eleganza alla buona e pochi orpelli, nonna Tatà indossava il suo cappotto elegante, di pura lana, nero, lungo fino alle caviglie, ornato da un collo di volpe costosissimo: era il suo unico vezzo, custodito come una reliquia. Lo indossava con un eleganza che lei possedeva per natura e che incorniciava la sua corporatura da bella donna, alta, longilinea eppure poderosa nell’inciampo delle curve femminili. Usciva di casa per due appuntamenti: le sante quarantore in chiesa Madre e quindi la messa in piega dal suo parrucchiere. Il sacro e il profano accostati in una maniera che la rendeva adorabile.

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Quando tornava, la casa iniziava già a riempirsi di parenti, lei metteva in testa un cuffietta così da non disturbare i capelli e via di nuovo in cucina. Il sugo di Carnevale era pronto: profumato, sontuoso, attendeva solo di incontrare “u maccarruni”, la pasta formato zito, che dalle nostre parti é il senso del martedì grasso.

Quindi via a friggere la salsiccia, in una maniera che solo mia nonna conosceva e che faceva di un piatto ordinario una delizia.

Ci sedevamo a tavola e nonna da protagonista diventava una comprimaria

Osservava in silenzio lo stuolo di figli, nipoti e pronipoti di cui lei era la matriarca. Aveva in sé una doppia anima. Nonna Tatà passava dal disossare conigli selvatici su un vecchio tavolo al commuoversi per un film sui grandi sentimenti. Tutto ciò poteva accadere in maniera fulminea e al netto di qualsiasi ipocrisia. Questo perché mia nonna era l’esempio delle donne forti: che sanno avere sangue freddo quando serve e quindi sciogliersi  per una ragione banale.
Mia nonna Tatà piangeva di rado e aveva il cuore accogliente delle persone di una volta. Sarà questo un luogo comune, ma effettivamente queste persone di una volta, capaci di sacrifici, atti d’amore e di vocazioni alla buona volontà, oggi sono delle rarità.

Nonna Tatà era un pozzo senza fondo di amore, che dispensava alla sua grande famiglia senza preferenze e con un talento assai personale.
Adorava le grandi occasioni, che all’atto pratico in realtà erano circostanze piccine. Una di queste era “l’ultima sera”, così si chiama dalle mie parti il martedì grasso. Per la nonna iniziava, dal mercoledì delle ceneri, un tempo di astinenze massacranti. Lei era certa di aver ricevuto dai piani alti un grande miracolo e la sua riconoscenza veniva fuori in tempo di quaresima, periodo durante il quale si privava di parecchie cose, compresa la messa in piega dal parrucchiere. Lo faceva senza piagnistei, ma sapeva che quaranta giorni, senza le piccole gioie della vita, sono lunghi da passare. Per questa ragione teneva tanto “all’ultima sera”, al radunare la sua amatissima e complicata famiglia, a cucinare il sugo di Carnevale e lo zito, a riscaldare quello stanzone gigantesco, che da vuoto pareva una ghiaccera, ma una volta riempito di parenti diventava quasi piccino, un focolare di sorrisi, chiacchiere, qualche litigio, profumo di sugo di carne, di mandarini tardivi e di ricordi belli. Ogni cosa di quel tempo era imperfetta, compresi i sentimenti che ci legavano, eppure nel ricordo tutto torna indietro bellissimo, come un quadro dei tempi romantici, con al centro nonna Tatà, che amava le piccole cose e le faceva diventare grandi. Nonna Tatà, che mi ha insegnato la solennità dei giorni, compreso il martedì grasso. Ogni anno, per “l’ultima sera”, preparo il sugo seguendo quella ricetta antica.

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Racconto a mio figlio di me bambina, attorniata da quella grande famiglia imperfetta, di mia nonna, del sugo di Carnevale e dello zito, che lui mangia con gusto, mentre ascolta le mie nostalgie. Sgrana gli occhi e non so fino a che punto lo intrighi il mio discorso. Io continuo a parlare, raggomitolandomi in un ricordo caldo, che mi riporta a un’infanzia felice, alle cose “da nulla”, che mi parevano senza confini e alla solennità piccina “dell’ultima sera”.

 

 

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