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Le valigie da disfare, la scuola che ricomincia e io che mi auguro l’imperfezione

L’estate che sta finendo troppo in fretta e i buoni propositi per l’anno scolastico che inizia

Le valigie delle vacanze sono ancora in corridoio che mi aspettano. Quanto è noioso disfarle. Lasciare a giacere bagagli gonfi di ricordi è come trattenere un pezzo d’estate.

Lunedì ricomincia la scuola. Pare ieri che con le altre mamme discutevamo sui come e i perché di questo lungo tempo di vacanza. Tre mesi che andavano riempiti “di cose da fare”, di modo che i nostri piccoli non si annoiassero, che non avvertissero la mancanza dei loro compagni di scuola. Tre mesi di organizzazione chirurgica, perché l’Italia, si sa, sconosce il welfare per famiglie.

Eppure questo tempo, che pareva lunghissimo, è passato in fretta. Le soluzioni, vuoi o non vuoi,  le abbiamo “accroccate” ed eccoci alla vigilia del ritorno a scuola (è così bella questa frase, mi ricorda la mia infanzia, così lascio perdere gli inglesismi).

Ai miei tempi il primo giorno di scuola era una cosa elementare

 

Mia madre prendeva un permesso da lavoro per accompagnarmi e io ero felice. Dalla cartella usciva il profumo dei quaderni nuovi ed era una di quelle cose che mi faceva stare bene. Tutto l’occorrente si acquistava “a naso”, non ricordo che esistessero le liste e c’erano poche mode da seguire (Barbie, gli intramontabili Jollyinvicta e poco altro). Un bacio davanti al portone e via con le maestre, che ricevevano manine tremolanti insieme alla piena fiducia dei genitori.

Non c’erano fotografie a immortalare quel momento e a dire il vero non ricordo particolare pathos da parte della mia famiglia, forse perché i miei non erano di natura sdolcinati o perché erano altri tempi.

Sì  a qualche raccomandazione: fai la brava, se nonno ritarda all’uscita di scuola rimani vicina alla maestra. Null’altro.

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Erano altri tempi

Non c’erano le chat di classe dove se sbagli mezza parola puoi scatenare l’inferno. Non esistevano le piattaforme digitali per scaricare i compiti per casa. Se una mamma aveva un dubbio, doveva necessariamente telefonare a un’altra mamma e insieme provavano a risolvere il problema di matematica o ragionavano sul riassunto di italiano.

Non c’erano, a dire il vero, tante delle cose che ci sono oggi.

Le attività extra-scolastiche, alle quali ci affanniamo a iscrivere i nostri figli, perché sennò temiamo possano rimanere dei ritardatari della vita: potenziamento di inglese, nuoto, pianoforte, ginnastica artistica, basket, corso di teatro, di acquarello e di scultura. Quando va bene i nostri piccoli ne svolgono almeno un paio, se va male eccoli impegnati ogni santo pomeriggio della settimana. Perché l’inattività e la noia fanno paura. Più a noi genitori che non ai nostri figli. A loro non deve succedere ciò che é capitato a noi boomers professionisti del precariato. Sarà per questo che li immaginiamo (quasi) tutti fluenti parlatori di lingue straniere, provetti nuotatori o future etoils di danza.

Viviamo del resto nel tempo della performances e anche se non lo ammettiamo, coviamo il sogno nel cassetto di avere in casa un genio (più o meno compreso) di una qualsivoglia specialità. Alt, non voglio creare equivoci. Non blatero che ciascuno pensi di aver generato un Einstein, un Picasso o una Rita Levi Montalcini, quantomeno speriamo che i nostri figli non rimangano persone qualunque.

Quindi la socialità, che è una condizione imposta dai nostri tempi, quando invece dovrebbe essere un’attitudine naturale.

I nostri figli da soli in casa, davanti a un cartone animato (e quanti Mila e Shiro, Candy, Holly  e Georgie abbiamo visti noi da piccoli) ci mettono ansia, non sia mai che si deprimano, che diventino dei passeri solitari. Quindi via a organizzare di tutto e di più. Perché oggi i figli unici e basta, unici ma di famiglie allargate, secondogeniti di fratelli molto più grandi sono tanti e noi genitori temiamo a morte la solitudine ed anche la timidezza. Che a pensarci bene possono essere anche due meravigliose risorse, se prese a giuste dosi.

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Ci sono poi le feste di compleanno, che devono essere “issime”, perché sennò il nostro bambino soffrirebbe. Non elenco i superlativi assoluti che si rincorrono a ogni candelina spenta e quanto carico per i nostri portafogli da genitori comuni mortali. “Basta che loro siano felici!”. É il diktat di questo tempo. È davvero così?

Ricordo di una festa in cui i genitori avevano superato loro stessi, alla fine c’erano stati pure i fuochi d’artificio a suggellare la distribuzione di zucchero filato, caramelle e gadgets. Eppure la festeggiata aveva battuto i piedi e pianto per tutto il tempo. Ci fu invece la volta in cui la bimba, timidissima, si trovò al centro di una festa monumentale e cercò in tutti i modi di eclissarsi, fino al punto di riuscirci. Gli altri si divertivano e lei in un cantuccio tentava di rendersi invisibile.

C’era, un tempo, grande rispetto dell’istituzione scuola, con una sacralità riconosciuta agli insegnanti.

Oggi non è più così, anzi, diamo colpa alla scuola se la nostra società ha preso la deriva.

C’erano allora meno gruppi aggregativi di genitori, ma forse più solidarietà.

In classe, un bimbo con difficoltà di apprendimento era semplicemente un bimbo con difficoltà di apprendimento.

Oggi invece c’è il timore che l’intera classe rallenti i suoi programmi, quindi “si deve pur cercare una soluzione”.

Per non parlare del ribelle (mondo è stato, quando mai in classe non c’è stata l’irresistibile pecora nera?).

Nella nostra società del perfettibile, l’intralcio va rimosso

Ed ecco che va a farsi benedire questo politicamente corretto, che è diventata una prigione dei social e del perbenismo.

Perché, stringi stringi, non siamo così emancipati e lo dimostra la rabbia feroce che ci infiamma i polpastrelli e trova il suo tempo di esplosione nella virtualità più che nella realtà.

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Guardo le valigie in fondo al corridoio, gonfie di un’estate fatta di un tempo che ciascuno sceglie: le vacanze, l’ozio, i passatempi e gli amici con cui bere bicchieri di vino e raccontarsi la vita.

Lunedì ricomincia la scuola e io faccio a me e a mio figlio l’augurio che sia un anno elementare. Come quando ero bambina, mia mamma prendeva un permesso da lavoro, mi dava un bacio più forte del solito e consegnava la mia manina a quella della maestra. Poi erano mesi semplici, di compiti noiosi, di merende con le compagne di scuola, di qualche festicciola, di domeniche mattina a leggere il Corriere dei piccoli e a mangiare a casa dei nonni, su una bella tavola ornata con una preziosa tovaglia di fiandra.

Mi auguro di essere più clemente con me stessa. Di affaticarmi meno nel disperato tentativo di fare mio figlio felice sempre, perché tanto lo sarà anche e soprattutto  quando non me lo aspetto, per esempio in un sabato casalingo, davanti a un cartone animato, quando io non avrò voglia di fare nulla, di inseguire alcuna socialità e a lui andrà sicuramente bene lo stesso.

Buon inizio anno scolastico.

 

 

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