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La storia di una donna che ne passó di cotte e crude e fino alla fine continuò a sperare di vivere

Una storia vera, che di questi tempi fa bene al cuore

Quella che sto per raccontarvi è una storia vera. Parla di una donna che ho conosciuto bene e sulla cui sincerità, sulla buona fede dei suoi ricordi e sulla genuinità del suo dire potrei giurare anche di fronte al più severo dei giudici.

È la storia di Tatá, che di cose ne visse tante e le attraversó tutte con l’intensità di chi di vita è avida e nella vita stessa ravvede il senso e la ricompensa per tutto.

Tatà visse le due guerre, la prima che era ancora bambina e la seconda che era giovane moglie.

Aveva appena nove anni quando la vita, d’un colpo solo, le porto via sua mamma, Melinedda e la sua adorata sorella Filomena. Morirono una dietro l’altra, vittime della malattia di quel tempo, che Tatà però non voleva mai nominare. Un male che pare avesse lambito anche lei, ma in forma lieve: “Ero piccina, mi venne una tosse brutta, al dottore Aricó il dubbio gli venne che si trattasse di ‘quello’, ma l’ospedale di Palermo era lontano, c’era carestia e malattia ovunque. Mi curó a casa e a giro di una settimana stavo meglio di prima. Mi mancavano però mia mamma e mia sorella Filomena e quella mancanza doleva nel petto peggio della tosse. Se ne andarono che era mattina presto e non tornarono più. La mamma mi mancava più di tutto. Ricordati che la mamma é l’arma e cu la perdi nun la guadagna.”

Non ho mai compreso se “arma” stesse per anima o letteralmente per arma, ma, ad ogni buon conto, quel detto era uno dei preferiti da Tatà e lo ripeteva tutte le volte che era il caso di farlo.

Le nozze e la grande guerra

Tatà si sposó giovanissima, di lí a poco rimase incinta e manco, il tempo di godersi la gioia che le cresceva in grembo, suo marito, Cola, fu richiamato alle armi. Era la grande guerra e Cola, che non era stato in vita sua manco ad Agrigento, fu spedito in Russia. E Tatà rimase da sola, con la pancia che cresceva, le bombe che tuonavano anche nel borgo dell’entroterra agrigentino dove viveva e il solo conforto in suo padre. Era rimasto vedovo giovane e non si era più risposato. Si chiamava Santo e quella figlia prediletta lo chiamava “Papàsà”. Come comandava il pudore del tempo, “Papasà” portava alla figlia primizie e cibo “a strasattu” (in modo inaspettato) ma fingeva di non accorgersi del ventre accogliente, dell’andatura stanca e dei lineamenti nuovi di quella che per lui era rimasta la “picciliddra”, perché la più piccola dei suoi figli. Sia di quelli rimasti vivi, sia di quelli rubati a capriccio dalla vita.

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Tatà partorí insieme alla mammana e senza un solo affetto ad aspettare dietro la porta. La vita le aveva giocato un altro tiro. Poche settimane prima del parto Papasà era stato arrestato e non perché fosse un delinquente, quanto perché aveva disatteso un “ordinuccio” fascista.

Tanti figli e tante salite

Tatà ebbe cinque figli: tutti belli, robusti e forti. Nel frattempo l’Italia viveva il tempo della ripresa, ma al suo paesello l’economia la muoveva la miniera di Cozzo Disi, dove suo marito Cola era fuochista. Scampó in più di un’occasione alla corte della morte. Lui scendeva nelle viscere della terra e Tatà rimaneva a casa con i cinque figli a pregare che la Madonna Annunziata proteggesse quel marito ateo e comunista, ma robusto nel corpo, nell’agire e nell’essere onesto.

Peripezie da non poterci credere

In quegli anni Tatà visse una serie di peripezie che a ricordarle si fa fatica a crederle, eppure le capitarono e la lasciarono incolume. Si ammalò della terribile Asiatica, l’influenza che veniva da oriente. Le toccó i polmoni già provati, ma la scampó. “Io avevo già preso la Spagnola, quella sí che era malefica. Che mi doveva fare l’Asiatica?”

Ebbe pure la Spaziale, ma fu poca cosa. Poi il colpo più difficile, quando era appena quarantenne, con la più piccola dei suoi figli che manco aveva tre anni. Inizió a deperire ed avere una febbre senza inizio e manco fine. In fin di vita la portarono a Palermo, nel migliore ospedale della città. A fare da apripista tra medici e reparti, fu un suo cognato, un brigadiere della Benemerita, dagli occhi chiari, che riflettevano in pieno il cuore buono. La portó al cospetto di un professorone, che però alzó le spalle al brigadiere in divisa e decretó che c’era poco e nulla da fare. Un brutto virus le aveva aggredito il fegato e da lì era migrato altrove.

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”Mi rispedirono a casa. Non c’era più nulla da fare. I medici mi avevano dimesso, ma evidentemente il Medico, quello che sta sopra di tutti, aveva altri progetti.”

E Tatà la spuntó anche quella volta. E la spuntó quando le si ammaló il cuore al punto che non riusciva più ad alzarsi dal letto e quando a settant’anni le diagnosticarono una forma severa di mieloma multiplo, con il verdetto che non sarebbe arrivata a Natale: “sono vecchia, ci faremo compagnia con questa malattia moderna e con il nome difficile.”

Ed anche quella volta ebbe ragione.

Perché Tatá campó e campó a lungo, perché essenzialmente la vita era il grande obiettivo della sua esistenza. Realizzó i suoi desideri: passare Natale e Pasqua con i figli, i nipoti, e nel frattempo vederli sposati, diventare bisnonna e riempirsi il petto d’orgoglio perché anche una sola persona di famiglia conseguisse la laurea. “Che studiare è bello. A me sarebbe piaciuto, ma a tempi antichi non usava.”

E quando io mi sono laureata per Tatà fu un giorno bellissimo, uno dei più belli della sua vita. Così mi disse mentre festeggiavamo nel suo letto, con una torta di sola panna, la sua preferita.

Si è presa cura di me

Tatà era mia nonna. L’ho amata e la amo con tutto il cuore perché si è presa cura di me e mentre lo faceva mi ha insegnato tante cose e tante altre me ne ha donato. Su tutte l’amore per la narratività, che lei ha seminato in me con la dedizione di un buon giardiniere: parlandomi tanto, ascoltandomi ancor di più e facendomi entrare in confidenza con la carta di libri e giornali che, sin da piccola, erano la mia grande passione.

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Da quando viviamo la tragedia del Coronavirus ho alternato diversi sentimenti. L’iniziale incredulità, quindi l’angoscia di non sapermi proteggere, di non poter tutelare il mio bambino, di non rivedere più i miei genitori e mia sorella, che vive al nord, in una delle regioni della grande paura. Ho avuto momenti di grande sconforto ed ogni volta ho pensato a nonna Tatà: a quella vita passata a scampare guai e nel frattempo a costruire cose grandi, a saldare legami, a seminare sogni, ad avere fede ma ancor più fiducia. Perché raccontata così per come ho fatto, l’esistenza di mia nonna sembrerebbe un continuo piagnisteo. Non fu così. Anzi:  non la vidi mai piangere piegata di fronte ai suoi dolori. L’ho sentita progettare il futuro fino a pochi mesi prima che morisse. L’ho ascoltata fiduciosa quando mi restituiva la stima che io avevo perso o quando mi consigliava di studiare perché lo studio “ti porta dove vuoi, l’ignoranza ti fa restare a casa.” L’ho stimata per quella sua capacità di perdonare e di essere altruista, caratteristiche, queste, che credo l’abbiano aiutata tanto a sfiammare i dolori della vita. Le ho voluto bene per quel suo cuore grande e per quella casa all’angolo, dove c’era posto per tutti. In ultimo, ma non per importanza, l’ho sempre vista bella: gli occhi scuri dal tono intenso, il corpo ben proporzionato, la pelle chiarissima, l’andatura da persona importante. Mia nonna era una donna intelligente e fiera. Ed oggi avevo voglia di parlarvi di lei. Perché in questo tempo che sa di dolore, paura e malattia, volevo raccontarvi di una persona che è passata in mezzo a più di un dolore, di una paura e di una malattia e ne è uscita ferita, ma vincente. Nonna Tatà, quando salutó la terra, aveva 94 anni e morì in grazia di Dio, con intorno le persone che amava. Cosí come aveva sempre desiderato.

Ricordando una grande persona, che mi dà speranza, Vi auguro una Pasqua serena, di coraggio e speranza

 

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