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La storia di mio padre, che diceva: a me non potrà mai succedere

È arrivato in condizioni critiche all’ospedale, è un uomo sano ed ha 53 anni

Salvatore ha 53 anni, vive a Cislago, vicino Varese, è uno chef ed è da giorni in rianimazione per Covid 19. Salvatore è sempre stato sano, ha fatto un check-up nei mesi scorsi per un dolore persistente al fianco. “Lo hanno girato sotto sopra come un calzino, ci racconta la figlia Veronica: sano come un pesce! Così hanno esclamato i medici quando lo hanno dimesso. Sarà stato anche per questo che mio papà, appena in Italia si è fatto avanti il rischio concreto del Coronavirus, lo ha preso sottogamba.”

Salvatore vive da tantissimi anni in Lombardia, ma il nome fa trapelare le sue origini: è siciliano di Niscemi e la moglie, anche lei oggi malata di Covid, è di Barrafranca.

“Viviamo qui da sempre, prosegue Veronica, ma mi creda le nostre origini sicule sono forti. Siamo una famiglia alla siciliana, come quelle di una volta. Viviamo in una villetta trifamiliare: i miei genitori e la nonna, che viene su sei mesi all’anno, a fianco io, mio marito e le mie bimbe e dall’altro lato verranno a vivere mia sorella e mio cognato, che dovrebbero sposarsi a settembre, se sarà possibile. Tra noi condividiamo tutto. Mangiamo quasi tutti i giorni insieme. Le nostre rispettive famiglie sono l’una il prolungamento dell’altro. Ci calza a pennello, e mai come in questo periodo, il detto: uno per tutti e tutti per uno.”

Come inizia la disavventura con il Covid?

Tutto è iniziato il 10 marzo.  Al rientro dal lavoro, mio papà aveva brividi di freddo. Lì per lí non ci fa caso. Io però inizio ad avere qualche timore. In Lombardia la paura del virus era reale già da qualche settimana e io con mio marito e le mie bimbe avevamo attuato tutte le forme di distanziamento. Io lavoravo già in smartworking e uscivo solo per la spesa e qualche passeggiatina con il cane, ma in posti isolatissimi. Mio papà invece se ne fregava. Andava a lavoro al ristorante, a fare spesa per entrambi i locali che gestisce, aveva un contatto diretto e costante con i clienti: strette di mano, abbracci. Noi lo ammonivamo, ma lui ripeteva che non avrebbe mai preso il Coronavirus, che lui era già immune. Io gli ripetevo di lavarsi spesso le mani, di usare i guanti e lui mi guardava come per darmi dell’esagerata. Si sentiva ed era sanissimo, vigoroso. Le dirò di più, tutta la mia famiglia gode ottima salute. Mi crede se le dico che nessuno di noi ha mai subito un intervento o un’ospedalizzazione se non le donne per partorire?”

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Dopo quei brividi di freddo cosa succede?

Il pomeriggio del giorno dopo inizia la febbre con picchi di 39,5. Io e mia sorella all’inizio pensavamo avesse preso l’influenza che avevano avuto le bimbe una decina di giorni prima. Non capivamo però perché papà non reagisse  all’antipiretico. La febbre scendeva di poco per poi risalire. Chiamiamo il medico che prescrive l’antibiotico, che però non da alcun effetto. Dopo quattro giorni pensiamo seriamente che ci sia di mezzo il Covid. Iniziamo a chiamare i numeri verdi dell’emergenza ma prendere la linea è un’impresa. Papà aveva la febbre a quaranta, non riusciva ad alzarsi per andare in bagno e non voleva più alimentarsi.  Abbiamo chiamato  da cinque telefoni per 24 ore e non abbiamo mai avuto risposta. A quel punto contatto sui social un assessore del nostro comune che riesce a sbloccare la situazione. Veniamo contattato telefonicamente dall’Ats Insubria, descriviamo i sintomi di papà e in quel momento scatta la quarantena forzata per tutti, compreso mio cognato che si trovava lì per caso. Ci dicono, al telefono, che saremo in sorveglianza attiva e che non dobbiamo muoverci di casa. Per papà, che intanto stava sempre peggio,  non  ci hanno proposto né ricovero né il tampone. Ci hanno detto che con il solo sospetto, una volta in ospedale avrebbe rischiato di beccare il Covid. Paradossi che però non sono un’eccezione in questa emergenza.

Poi le cose peggiorano

Al quinto giorno papà non può piú  alzarsi dal letto e non mangia più. Preoccupatissimi iniziamo a chiamare il curante e la guardia medica. Nessuno però è disposto a venire a visitare un caso sospetto di Covid. Ci viene in mente il piano b, facciamo venire da Milano un medico a pagamento (una parcella non da poco). La diagnosi è quella di bronchite. Nuova terapia, un altro antibiotico ma nulla. La situazione va sempre peggio. Il giorno dopo si sveglia e inizia ad avere anche vomito e dissenteria. Nel frattempo noi, grazie alla Protezione civile locale e a una farmacia,  siamo riusciti ad avere un saturimetro, che ci ha permesso di capire l’urgenza. Al nono giorno di calvario inizia a scendere la saturazione a 94. Papà non ha mai avuto un solo colpo di tosse. In tutto ciò abbiamo isolato mia mamma dall’accudimento di mio padre, pensando che fosse più saggio che io e mia sorella, in quanto più giovani, provvedessimo noi alle cure. Per inciso, dal momento in cui mio padre è diventato un sospetto Covid, siamo stati muniti solo di quattro mascherine chirurgiche per tutto il periodo.

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Al decimo giorno io e mia sorella siamo risolute: papà va ricoverato. Chiamiamo il 118, viene anche il medico, erano tutti con le tute. Ci fanno allontanare in altra stanza e senza dirci nulla, lo portano via subito perché aveva la saturazione a 85. L’ultima immagine che ho di papà è sofferente, ma assolutamente cosciente.

Il ricovero in Rianimazione

Lo hanno ricoverato in condizioni critiche all’ospedale del Circolo di Saronno. In questa malattia atroce, quando portano via un paziente in ambulanza devi solo aspettare. Non si può andare in ospedale nè chiamare le volte che si vorrebbe. Al telefonino papà non rispondeva più perché evidentemente non ne aveva la forza. Il giorno dopo sappiamo che gli avevano messo il casco chip up. Purtroppo però le sue condizioni erano gravi e il casco non sortiva gli scambi gassosi sperati. Da lí la notizia che non avremmo voluto avere. Era il 21 mattina e il medico al telefono ci dice che la situazione è peggiorata e che lo avrebbero intubato. La sua saturazione era ormai ai limiti della sopravvivenza. È stato intubato tre giorni, che per noi sono stati infiniti.

Come sta oggi suo padre?

Dopo tutti questi giorni finalmente oggi gli ho parlato al telefono. Aveva una voce irriconoscibile ma mi è bastato sentirlo per saltare di gioia. I medici cautamente hanno detto che la situazione non è più grave ma stabile. È estubato ed in terapia con il casco, si alimenta ancora con le flebo in vena e con accesso gastrico. La strada è ancora lunga ma oggi siamo molto motivati.

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Cosa le ha detto oggi suo papà?

Ci ha chiesto se eravamo stati anche noi infettati. Mia mamma è stata la sola con sintomi gestibili a casa, ma non lo abbiamo detto a papà. Adesso deve solo pensare a guarire.

Cosa ha capito da questa esperienza?

Che la parola “non toccherà mai a me” deve uscire dai nostri vocabolari. Che questa è una malattia difficilmente evitabile perché invisibile, nessuno la conosce e non c’è una terapia univoca. L’unica arma è il distanziamento e stare a casa.

Cosa sogna?

Che mio papà torni a casa e possiamo tornare a mangiare tutti insieme sereni come facevamo abitualmente fino a un mese fa. Questa malattia ci ha tolto la normalità e ci ha messo addosso la paura di tornare a una vita normale. Facendo ciascuno la nostra parte sono certa però che ce la faremo.

Grazie Veronica e ad maiora!

 

 

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