Avevo 13 anni, mi piaceva scrivere, leggere e a scuola andavo matta per la Storia e la Geografia. Ero una ragazzetta timida, ma nel petto mi battevano un paio di grandi aspettative per il futuro. Quel paio di sogni attutivano un senso di inadeguatezza, che mi si installava tra testa e cuore già appena sveglia. Sarà stata colpa di quei chili di troppo, che valevano gli sfottó di un paio di compagni buontemponi. A loro rispondevo puntuale e per le rime, scordandomi di essere timida e tenendo bene a mente le raccomandazioni di nonna Tatà: “Non provocare, non iniziare mai una lite, non accusare, ma non permettere mai a nessuno di mancarti di rispetto. Nè con le parole, nè con i fatti. Mai”.
quel prof d’altri tempi
Alle medie c’era un prof. che ricordo con stima e affetto. Si chiamava (e si chiama ancora) Antonino Vaccaro. Occhi chiari, grande preparazione, animo buono e, allorquando serviva, il piglio severo e l’autorevolezza degli insegnanti d’altri tempi. Mi fece la prima vera interrogazione della mia vita. Storia: il paleolitico. Ero preparatissima e lui scrisse a stampatello sul mio libretto la parola OTTIMO. Fu uno dei momenti più felici della mia vita, un’istantanea che porto nel cuore, un frammento di esistenza che mi insegnó tante cose, da non limitare alla soddisfazione di un bel voto. Credo che il buon prof. Vaccaro avesse compreso la mia anima da pulcino, infilata in un fisico corpulento, ma tutto sommato dedicato. Mi difendeva quando partivano le scaramucce con il solito paio di buontemponi e lo faceva con acume, senza sottrarre nulla al mio desiderio di spicciarmela da sola. Una volta, dopo un’interrogazione di Geografia, sulla Toscana, sulla Maremma e l’arcipelago dell’Elba, mi suggerì, a scena piena, di guardare in tv il Giro d’Italia: “Corrono in questi giorni ed è emozionante vedere sfilare centinaia di biciclette tra le bellezze d’Italia. Vedrai che la geografia ti piacerà ancora di più.”
la scoperta del Giro d’Italia
Il pomeriggio ero già sintonizzata su Italia 1, con Davide De Zan a fare la cronaca, scapigliato e incosciente, in sella a una motocicletta. Mi incantai. La corsa rosa passava proprio dalla Toscana, c’era il sole, il cielo terso e quella carovana di sportivi varcava distese verdi, lambendo il mare e svirgolando per borghi con il tempo fermo. Non ne feci più a meno. Ogni pomeriggio, alle 15 esatte, mi piazzavo davanti alla tv e tifavo Chiappucci, Fondriest, financo un certo Coppolillo, corridore calabrese, che si guadagnò un posticino al sole nell’edizione del Giro anno 1994. L’illuminazione arrivó una domenica piovosa di fine maggio. Quel giorno il Giro lo seguii dal televisore in bianco e nero della “robba” in campagna. Eravamo là per accontentare mia sorella, che, malgrado la pioggia, voleva fare un pic nic. Era una tappa dolomitica, durissima, con partenza da Merano, arrivo ad Aprica ed in mezzo quel diavolo del Mortirolo. Sbucó un ragazzetto smilzo, con la faccia insignificante, tutto orecchie e con le gambe di fil di ferro. Si fece strada tra i campioni, compresi quel geniaccio del ciclismo, che rispondeva al nome di Miguel Indurain e il biondino russo, primo in classifica, Euvgenj Berzin. Il tipetto si alzó sui pedali e lanció a tutta Italia uno sguardo d’argento. Scattó come un ghepardo che deve agguantare la preda. Il viso insignificante si caricó di passione e forza, al punto da sembrare bellissimo. Le gambe spingevano i pedali con coraggio, grinta, rabbia, voglia di essere il primo. A tutti i costi. Il mio cuore da ragazzina battè forte forte, tanto che dovetti poggiarmi una mano sul petto e darmi un pizzico su una guancia, per accertarmi di stare ancora bene. Se è vero che a tredici anni scopri l’amore, a quell’età inizi anche a conoscere le passioni, che saranno un fuoco buono (o cattivo) per il resto della tua vita. Tifai, con tutto il fiato che avevo in corpo, per quel tipetto smilzo, dal viso allungato e quasi del tutto privo di capelli. Mi impressionó quella scalata solitaria, il coraggio di lasciarsi tutti alle spalle, la volontà di domare quella cima ostile e di avere la meglio. Quel tipetto, magro al punto da far temere che potesse spezzarsi, era all’esordio tra i professionisti, eppure aveva dato prova di essere un veterano, rinverdendo il ricordo di Bartali, Coppi, Merckx.
Mi mancó il fiato
Quel giorno mi mancó il fiato. Mi mancó davvero e sarà per questo che di quella domenica ricordo ogni cosa. La pioggia che batteva sulle foglie dell’albero di noci, mia sorella e mio padre che si cimentavano a ricomporre un puzzle di duemila pezzi, mia madre che rassettava e io in trance, incredula, felice, carica di quel coraggio che quel ragazzetto in sella mi aveva contagiato. Aveva la maglia della Carrera, doveva essere un gregario di capitan Chiappucci, esordiva come semplice controfigura. Invece inizió la sua parte da re, dando filo da torcere perfino a quel mostro di bravura di Indurain, che era alto, snello, bruno, pieno di fascino iberico ed abituato a far da asso piglia tutto. Quel ragazzetto aveva 24 anni, arrivava da Cesenatico e si chiamava Marco, Marco Pantani ed è stato un campione. Non un campione qualsiasi, ma uno di quelli che mandano in tilt il cuore e il cervello. Che ti fanno comprendere che il coraggio di domare le cime può appartenere a chiunque, anche a un tipetto smilzo, con la faccia insignificante, le gambe di fil di ferro e la voglia di arrivare primo.
Pantani che mi è rimasto nel cuore
Pantani mi è rimasto nel cuore perché, in quell’era della mia vita in cui qualche chilo di troppo, una latente timidezza e un paio di compagni buontemponi erano un inciampo quotidiano nel mio cammino, lui conquistava vette, con fatica, ma le conquistava. Nel suo viso senza significato, che diventava bellissimo ogniqualvolta si alzava sui pedali, leggevi chiara la possibilità di ciascuno di domare la propria personale cima Coppi. Da allora il ciclismo è rimasta una mia grande passione, di quelle che mi danno ancora i palpiti. Con il ciclismo ho iniziato seriamente il mio mestiere da giornalista. Quando ancora ero una ragazzina, conobbi Pantani alla partenza di quel giro, che svoltó la storia, pur non cancellando il valore del Pirata. Oggi, rivedendo quella carovana di uomini in sella, ricordo quel giorno di maggio di 25 anni fa, il prof Vaccaro che mi invitó a guardare il Giro, regalandomi una passione, che per certi versi mi ha un po’ cambiato la vita. Ricordo Pantani, i miei chili di troppo, i compagni buontemponi e mi commuovo un po’ ed è bello così.
Al passo Sella (Trentino Alto Adige) cima Coppi vinta da Pantani nel 1998.
Ps: Pantani esordì da professionista nel Giro d’Italia del 1994 con il team Carrera Tassoni. Doveva essere un gregario di capitan Chiappucci, ma dimostró di essere uno scalatore puro e a soli 24 anni vinse due tappe, a Merano e ad Aprica. Memorabile il suo scatto sul Mortirolo, quando lasció indietro il suo stesso capitano, la maglia rosa Berzin, e il campionassimo Indurain, a cui lasció ben 3,30 di stacco (praticamente un’eternità). Pantani si piazzò secondo nella classifica generale del Giro, dietro a Berzin e davanti a Indurain. Nel 1994 Pantani compí imprese ciclistiche da veterano, pur essendo ancora “un ragazzino”.