Il morbillo mi aveva sfiancata. Un febbrone di quelli che non dimenticherò mai. Sentivo troppo freddo per stare scoperta ed un caldo indicibile quando mi infilavo sotto il plaid. Avevo undici anni e la sola nota positiva di aver beccato quella malattia erano i dieci giorni di “ferie” da scuola. Quella sera di maggio ero ormai in ripresa. Al mio paese era grande festa: il Tataratà. I lettori agrigentini, più in genere quelli siciliani, sapranno di cosa parlo. Una festa lunga e larga, per molti sicuramente bellissima. Io non potevo parteciparvi.
La pediatra mi aveva imposto almeno altri tre giorni di sosta a casa. A farmi compagnia c’era mia nonna Stella. I miei erano usciti con la promessa che mi avrebbero portato un regalo, scelto alla fiera.
L’unica consolazione sarebbe stata vedere in tv Scommettiamo che
Era un appuntamento fisso del sabato italiano. Frizzi, la Carlucci, i signori scommettitori e la doccia finale. Io e mia nonna ci sintonizzammo ben prima delle 20 e 30 (orario democratico delle prime serate di una volta). C’era un movimento strano in tv. Il tg aveva in sovrimpressione la scritta “edizione straordinaria”. Aguzzammo la vista, affilammo le orecchie. Capimmo. Era morto il giudice con i baffi. Quello che “spuntava” spesso in tv. Ora da Costanzo, ora da Minoli.
” Nonna, come si chiama?”
“Falcone. Mischino (che nel nostro dialetto non vuol dire meschino, ma poveretto, sfortunato). L’hanno ammazzato, insieme alla moglie”.
Avevo undici anni, non capivo, non sapevo
A me importava di vedere Frizzi e la Carlucci, che annunciavano le prodezze dell’italiano medio. Avevo undici anni nell’epoca della guerra di mafia. Quando accendevi la tv e la sintonizzavi su un qualsiasi tg regionale era una conta quotidiana: un morto (quando andava bene), una strage quando andava male. Erano gli anni del sangue, quando un omicidio quasi non faceva notizia. I mafiosi si massacravano fra loro. Tra i proiettili capitava finisse anche qualche povero testimone oculare. Nel reticolo di sangue si incastrava qualche innocente: uomini, donne di passaggio, autori di colpe, che solo i cattivi conoscevano. Di giudici ammazzati ce n’erano stati già tanti: Chinnici, Saetta, Terranova, Costa, Livatino (ne sto citando alcuni, a memoria). Avevo undici anni e giuro non capivo. Quel nome di quella donna, poi, Morvillo, mi faceva pensare solo a quella malattia esantematica, a quel mio piccolo grattacapo, che mi costringeva a casa e non mi permetteva di godermi la festa del paese.
Fortuna che la vita ci mette in condizioni di capire
Fortuna che la vita ti dà la possibilità di scegliere la parte dalla quale stare. Oggi per fortuna è diverso. Esistono le giornate commemorative, i progetti “legalità”, che forse odoreranno un po’ di retorica, ma hanno il merito di far conoscere e la conoscenza è un dono importante. Se conosci scegli. Quando penso a quel sabato sera di 26 anni fa, lo ammetto, un po’ mi vergogno. Ero una ragazzetta sveglia, guardavo Baudo, adoravo la Gruber, sbirciavo le inchieste di Santoro, avevo letto, a modo mio, qualche capitolo di Siddharta e volevo già essere una giornalista. Eppure non sapevo chi fosse Falcone. Era un’epoca pop, per certi versi ancora di più di quella che stiamo vivendo. La mia famiglia era (ed è ancora) una famiglia onesta, di impiegati statali. All’epoca, però, anche nelle famiglie oneste non ci si poneva il problema di spiegare la mafia. C’era rassegnazione ed il discorso era troppo complicato. Oggi è diverso. Per fortuna. Oggi i ragazzi di undici anni, se vogliono, possono conoscere e scegliere la strada migliore. Oggi a Palermo sono sbarcati 1000 studenti da Civitavecchia. Forse non tutti sono qui con un chiaro ideale antimafia. Sono giovani, saranno più felici di fare una gita in Sicilia. Sicuramente, però, prima di imbarcarsi avranno imparato a memoria chi era il giudice con la barba, cosa ha fatto, perché è morto.
La vita mi ha dato la possibilità di percorrere un pezzo di strada giornalistica
tra i corridoi del tribunale di Palermo. Lì, alla Dda, un paio di magistrati, che hanno collaborato con Falcone, me lo hanno raccontato. “Era schivo, perfezionista, dedito al lavoro con quella totalità di anima e cuore, che solo in pochissimi hanno. Con la moglie si amavano alla follia. Lei una volta, agli inizi della loro storia, gli scrisse in un bigliettino: sei la cosa più bella che la vita mi ha dato. Avevano messo in conto quell’epilogo, ma avevano comunque scelto di essere una coppia felice”. Quelle parole, quando le ricordo, mi commuovono, di più mi incendiano. Penso a quella donna innamorata, che ha avuto la sorte (cucita addosso dal pensiero comune) di essere una controfigura. Immagino quell’amore travolgente, che si è infilato nella vita di due persone “rigorose”. Immagino Francesca Morvillo scrivere quel biglietto, mentre le batteva il cuore forte, come capita quando ti innamori davvero e pensi che tra poco rivedrai la persona amata. La immagino mettere in conto la fine e scegliere di andare avanti. Comunque. Perché essere felici, anche per “poco”, è un privilegio di pochi. Vivo a Palermo da anni. Ho imparato a conoscere la sua gente.
Falcone era palermitano, dei quartieri popolari
È stato un eroe. Un palermitano, anche il più onesto, non fa la sua fine “per caso”. Lo penso concedendomi la presunzione di aver scritto una verità. Oggi A tutta Mamma sente il dovere e il bisogno di ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Vito Schifani ed Antonio Montinari. Grazie per le vostre vite.