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Home » Il virologo Pregliasco: a inizio pandemia ho visto bare dappertutto, oggi siamo più preparati e dobbiamo vaccinarci

Il virologo Pregliasco: a inizio pandemia ho visto bare dappertutto, oggi siamo più preparati e dobbiamo vaccinarci

  • Maristella Panepinto
  • Febbraio 21, 2021
  • Storie di tutti i giorni

Le varianti sono temibili, ma con responsabilità e campagna vaccinale di massa potremo uscire dalla pandemia

Ventotto mila morti. Un numero che ha il sentore della disfatta in tempo di guerra. Quella che la Lombardia ha combattuto e combatte contro la malattia da Covid. Un tributo altissimo pagato a vista al nemico invisibile. Proprio in Lombardia, nel lodigiano, il nuovo Coronavirus ha installato le sue prime tende e lo ha fatto con impeto: colpendo un ragazzo bello, giovane e forte, quasi a dimostrare che non ce n’era per nessuno. Che il Covid quando arriva arriva. Abbiamo intervistato il professore Fabrizio Pregliasco, virologo, primario al San Donato e docente all’Università di Milano. Il professore Pregliasco è una delle figure chiave della lotta al Covid. É stato uno dei primi virologi ad affrontare l’emergenza nel suo epicentro, ha avuto il difficile compito di riorganizzare il Pio Albergo Trivulzio, dopo che il Covid aveva fatto una vera e propria carneficina.

Professore Pregliasco, un anno con il Covid, quale il suo consuntivo?

Un anno fa ci investiva uno tsunami ma al tempo non ne eravamo pienamente consapevoli. Ricordo che a gennaio scorso, quando vi fu il noto caso della coppia dei cinesi, iniziammo a prendere coscienza che il virus poteva bussare anche a casa nostra. Cominciammo con la formazione del personale, ci fu poi la ricerca dei dispositivi di protezione individuale. Ricordo perfettamente il periodo in cui si cercava di capire quante mascherine avessimo a disposizione, come procurare qualche tuta in più. Non immaginavamo che poi di mascherine e di tute ne avremmo necessitato in quantità abnormi, che sarebbero diventate delle compagne inseparabili. Ci fu una speranza: la coppia cinese, che dapprima si era aggravata, poi rispondeva bene alle cure. Quindi l’illusione: ce la potevamo fare. Non solo potevamo tracciare e circoscrivere il virus, ma riuscivamo anche a curarlo. Poi è arrivato il 20 febbraio: la prima diagnosi tutta italiana e da lì inizia quella che è storia. Io comincio subito la mia esperienza nella lotta al Coronavirus e da allora non la interrompo più.

Professore, quale il momento più drammatico?

Sicuramente l’aver spinto personalmente le bare adagiate sui carrelli in ospedale. C’erano bare dappertutto. Percorrevamo i corridoi in mezzo alle bare. Le prime erano state sistemate nella camera mortuaria. In pochi giorni quella non bastava più. Abbiamo iniziato a trasferirle in cappella, quindi nei corridoi. Camminavamo tra le bare ed eravamo addolorati e sotto choc. Poi arrivarono anche i sacchi neri con dentro le salme. Un dolore davvero grande. Perché sì siamo medici, ma siamo anche uomini.

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Quale ricordo legato ai pazienti in quei primi mesi difficili e confusi?

Un medico con i pazienti deve cercare di mantenere il più possibile la lucidità. Ho visto decine e decine di pazienti in fin di vita, che però erano mentalmente ancora lucidissimi. La cosa più triste: parlare e rassicurare una persona che stava esalando l’ultimo respiro. Ansimava, ma era presente a se stessa. Ho cercato di dargli coraggio, perché dare coraggio anche quando non c’è più speranza è un atto di umanità, che non si deve negare al paziente. Avevamo provato di tutto, ma quel di tutto non era bastato, perché il Covid sa non perdonare. Ricordo che era mattina, ho salutato il malato e poco dopo ho sentito il suo ultimo flebile respiro. Poi è andato via. Cos’altro aggiungere?

Un virus che ha sorpreso voi medici, anche per le sue dinamiche imprevedibili?

 

Assolutamente si. Vi racconto dell’angoscia per un caro amico che nella fase ambulatoriale e domiciliare è stato seguito da me e poi non ce l’ha fatta. Ha avuto una malattia relativamente lunga, non immediatamente grave. É poi mancato nel ricovero in terapia intensiva. Un altro paziente, che sembrava essersi ripreso, mi ha anche mandato un video quando è uscito dalla terapia intensiva. Il giorno dopo non c’era più. Questo virus è una brutta bestia.

Terapie e vaccini, cosa ne pensa?

Non abbiamo ancora una terapia vera e propria che curi essenzialmente la malattia da Sars Cov. 2.

Ritengo anche che si sia talvolta fatto un uso eccessivo di cortisone ed eparina, che sono due farmaci non privi di controindicazioni e che quindi vanno somministrati con giudizio. Ho una buona idea degli anticorpi monoclonali, ai quali si è arrivati grazie agli studi sul plasma iperimmune. Vanno però somministrati nella fase iniziale della malattia così da poterli rendere efficaci. Negli stadi avanzati e gravi non sortiscono l’effetto sperato.

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In merito ai vaccini la fiducia è massima. Tanto prima ci vaccineremo in massa, tanto più veloce sarà la strada d’uscita dalla pandemia. L’obiettivo è l’immunità di gregge che si ottiene con il vaccino. Mi preme anche dire che vanno abolite le tifoserie dei vaccini, che danno  al fanalino di coda il siero AstraZeneca. Anche questo è un vaccino sicuro, anzi i dati hanno riportato un’efficacia che è salita all’80%. Quindi vacciniamoci con fiducia e senza disaffezione per questo o quell’altro siero.

Quale il suo pensiero sulle varianti del virus?

Partiamo da un assunto semplice: le varianti si trovano quando si cercano e gli inglesi sono stati bravi a tracciarle. Va specificato che la variante inglese non è nata in inghilterra ma lì è stata trovata proprio perchè i britannici hanno fatto un’operazione importante: tracciare il virus e verificare le sue variazioni. Che i virus mutino è una cosa assolutamente naturale e messa in conto. Non solo, talune varianti sono solo stimmate del virus e non sono pericolose. In merito alla loro pericolosità, mi viene in mente una metafora con il bollettino dei naviganti: a fronte di un mare non proprio calmo si fa previsione di potenziale tempesta, ma non è detto che arrivi. Quindi prepariamoci a scenari difficili, ma speriamo in bene. L’Italia ahimè è in ritardo con il tracciamento, ma possiamo recuperare.

I vaccini hanno una copertura minima sulle varianti del virus?

Bisognerà vederlo dal punto di vista clinico e potremo verificarlo passo passo, studiando le casistiche. Ovviamente i virus da Sars Cov. 2, seppure variati, hanno una matrice comune e quindi possiamo affermare che il vaccino stempererà la malattia e farà sì che non sia letale.

Varianti molto più virulente, che colpiscono anche e maggiormente i bambini. Nuove preoccupazioni anche sul fronte pediatrico?

Specifichiamo che, in linea generale, le varianti, quella inglese in particolare,  è più diffusiva ma non è detto che sia più letale. É vero che colpisce con più facilità la popolazione pediatrica rispetto al virus orginario, ma i bimbi seguitano a sviluppare una forma sintomatologicamente lieve. Quindi non drammatizziamo.

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Cosa pensa della gestione pratica del contenimento del virus?

Ovvio che due settimane di lockdown totale aiuterebbero, ma sono più ragionevoli le azioni mirate. Non possiamo rischiare la guerriglia economica. Ovviamente si raccomanda il buon senso da parte di tutti. Le regole vanno rispettate: il distanziamento e l’uso della mascherina sono dei salva vita.

Quale lezione ci sta dando il Coronavirus?

Dire in senso generale che abbiamo imparato una lezione forse non è una affermazione vera. Mi auguro che la pandemia ci stia insegnando norme igieniche e sociali basilari: è importante lavare spesso le mani, soprattutto quando siamo in giro, dopo il supermercato, dopo essere stati su un mezzo pubblico. Spero anche che abbiamo imparato che anche di fronte a un banale raffreddore si deve proteggere gli altri. Sarebbe inoltre utile prendere esempio dai giapponesi che, nel periodo invernale, usano la mascherina nei luoghi pubblici o comunque affollati. É una piccola cosa, che potrebbe diventare una buona e sana abitudine.

Quale il suo rammarico in questi dodici mesi?

Da un punto di vista umano/professionale il fatto che il volontario, che nei mesi scorsi veniva applaudito, pian piano è stato considerato un untore. Della serie: evviva l’angelo custode, purché lontano dal mio pianerottolo. Da presidente dell’Anpas (associazione nazionale pubbliche assistenze/ una fra le più grandi associazioni laiche di volontariato) ho contezza di quanto fondamentali siano queste figure e mi auguro che sia tributato loro il giusto valore. Da un punto di vista personale riconosco che la pandemia ha devastato la mia vita privata. Ore e ore di lavoro che mi hanno fatto vedere poco i miei figli. Questo sì è un grande rammarico.

La cosa più bella, se c’è?

Lo ribadisco, la vicinanza del volontariato, che in questa pandemia è stato fondamentale, riprendendo uno spirito atavico, quello forte e genuino dei nostri nonni.

La sua speranza in merito alla lotta al Covid?

Che da qui a un anno riprenderemo in mano la nostra vita. Ovviamente tutelandoci e vaccinandoci.

Grazie professore e ad maiora!

 

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Maristella Panepinto

Maristella Panepinto

Sono Maristella, mamma, moglie e giornalista professionista. Da piccola volevo diventare Jo March di Piccole donne. Lavoro nel mondo del giornalismo da quando avevo 18 anni. La scrittura è una passione cresciuta con me e che oggi coniugo con il “mestiere” di mamma. Amo i posti alti, viaggiare, leggere, i film di Verdone, i libri di Gabo ed i cani, su tutti le mie due labrador Dafne e Palù. Ho da tempo 25 anni periodici.
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