Oggi cercavamo la neve. Semplicemente quella. Siamo venuti in Alto Adige per rivedere certi posti alti, che ci riempiono il cuore e per ammirare le distese candide, che disegnano in testa scarabocchi di pace. Eppure, giù, dalle nostre, parti ha fioccato per giorni, quassù abbiamo ricevuto abbondanti carezze di sole.
Non ci siamo arresi. La neve qua c’è sempre, basta cercarla. Le Dolomiti sono le regine delle nevi e dove non te lo aspetti, sopra la superbia delle cime, si poggia la tenerezza della neve.
Un vecchio del posto ci ha spiegato tante cose. Lo ha fatto a gesti e usando giusto un paio di parole. Ci ha indicato un percorso ed ha pronunciato ruvido: “Su per Vavenusta”.
La Valvenosta
Non sapevo neppure in quale punto della cartina geografica si trovasse. Nella mia mente, quella valle emergeva incollata sulle mele, nulla di più. Che ignorante!
Da Merano abbiamo imboccato una strada in salita, siamo passati di fianco a un paese con quattro case, una più bella dell’altra, un campanile ed un birrificio che pareva un monumento. Foresta. Si chiama così. Forst in tedesco. Ed anche lì il ricordo di un bollino, incollato su una bottiglia di birra. È proprio vero che la vita la si impara vivendo e il mondo lo si conosce camminandoci sopra.
La neve e le dolomiti
Per trovare la neve dovevamo arrivare a quota 1700, in un paese dal nome romantico, che era già un invito: San Valentino.
Il vecchio, la nostra guida, ci aveva rassicurati che, al paese dei pescatori, avremmo trovato tutta la neve che ci serviva e che, se avessimo proseguito ancora per qualche tornante, avremmo trovato ” una meraviglia”. Abbiamo annuito, sebbene l’idea di un paese di pescatori in alta montagna ci pareva un burla, un azzardo o più semplicemente l’innocente presa in giro, di chi ha gli anni necessari per scherzare senza motivo.
Ci siamo inerpicati tra tornanti dolomitici, che indicavano ora il passo Resia, ora lo Stelvio. La mia passione senza fine: il ciclismo (quello da vedere, perché in bici, ahimè, non ho mai imparato a montare). Adoro i posti alti, ne ho necessità. Una volta raggiunsi il Pordoi e sfiorai il monumento dedicato a Coppi. Non so perchè le cime mi diano coraggio, io che ho paura di troppe cose. Eppure salire mi entusiasma, mi regala forza. A 1400 metri ha iniziato a fioccare, prima piano, poi sempre più forte. Ho proposto ad Alessandro di tornare indietro. Ho pensato a Raffaele, all’eventualità di una tempesta. Penso sempre, penso troppo. Mio marito mi ha rassicurata: “Siamo equipaggiati, viaggiamo al sicuro, le previsioni sono buone. Vuoi mica mollare a un passo dalla cima, ma te lo ricordi il Pordoi?”.
Mi sono scese due lacrime, perché ho ripensato a quella volta, su quella vetta: uno dei giorni più belli della mia vita.
Siamo andati avanti. Nevicava morbido e dolce. Ecco: San Valentino, borgo di pescatori. Alla sinistra una lago ghiacciato, una sequela di barchette attraccate, una di fianco all’altra, disposte nell’ordine dei colori dell’arcobaleno. A destra un paesino come un presepe elegante. Bianco e perfetto. Il vecchio non aveva mentito. Ora ci toccava spingerci ancora più in su, per scoprire la “meraviglia”. Ancora un tornante, poi un altro. Non vediamo nulla. Perseveriamo.
Il campanile di resia
Ed eccolo, dall’enorme specchio d’acqua gelata sbuca una torre. Pare una visione. ‘Cosa fa lì da sola?”
Mi domando.
Vedo la torre e penso alla solitudine.
La riguardo e mi accorgo che è un campanile ed è bellissimo. Il riflesso del lago dà l’illusione che sia illuminato. Non è un luogo di solitudine, ma di calore, seppur tra i ghiacci e quelle cime ostili, affascinanti, intenerite dalla neve. È il campanile del lago di Resia. Un luogo metafisico che, lo ammetto, ora non riesco a raccontare. Non per come vorrei. La storia è a metà strada tra il reale e la leggenda. Sotto quel lago giace un paese intero, Curon in Valvenosta. Un paesino altoatesino immolato, negli anni ’40 per vili danari. Il lago doveva diventare una fonte di energia. Poco importava che decine di famiglie dovessero cancellare presente, passato e futuro. Un dolore annunciato, sepolto sotto l’acqua, ma reso indimenticabile dal campanile di Santa Caterina, che superbo, astuto, tenero e caparbio, scelse di rimanere in superficie. Malgrado tutto. Quella torre è immobile, stabile sulle acque, che sono, per definizione, il simbolo di ciò che fluisce. È una certezza tra le cose che scorrono. Al paese ci raccontano che, di tanto in tanto, qualcuno sente suonare le campane di Santa Caterina. Capita solo di notte, quando il cielo è sereno. Eppure quelle campane lì non ci sono più da un pezzo. Chissà se sarà vero. Quella “torre”, fuor di leggenda, è il senso che si può rimanere a galla, che ci si può ergere anche dove il resto sommerge. Banalità? Non credo. Visitate quel posto e, credetemi, vi darà una lezione. La stessa che ci ha dato quel vecchio uomo di montagna, che lì per lì m’era parso un manigoldo e che invece ha desiderato farci un regalo di quelli che restano.
Ps: l’itinerario fatto oggi era del tutto sicuro, lungo una strada costellata di meravigliosi e ben serviti paesini dolomitici. Raffaele, che frequenta le montagne (con tutte le cautele del caso) da quando aveva cinque mesi, era esattamente felice. Mi ha fatto un sacco di domande, alle quali non ho saputo rispondere, ed ha sorriso tantissimo.
Ps 2: il campanile di Resia ha ispirato il romanzo di Marco Balzano, Resto qui, finalista al premio Strega.