Caro prof,
la nostra storia è iniziata con Talete di Mileto. Io ero un anatroccolo di 16 anni: i miei chili di troppo, che mi facevano sentire un’esule in cerca della patria, le guance che arrossivano ogniqualvolta venivo chiamata in causa, il mio vestirmi malissimo, nel maldestro tentativo di nascondermi. I sogni chiusi a doppia mandata nella camera a sud del mio cuore.
Quella mattina sei arrivato in classe con la tua andatura dinoccolata, che lì per lì “faceva strano”, ma alla quale ci hai abituate presto. Parlo al femminile plurale perché la nostra classe era tutta di donne. Ventidue adolescenti, in un’aula dalla quale vedevamo nell’ordine: il mar Mediterraneo, il pino di Pirandello (che all’epoca svettava ancora in maestà) e, spostando lo sguardo un po’ più in là, la Vigata di Camilleri. Un privilegio, del quale, al tempo, non ci rendevamo conto. In quell’aula del glorioso Empedocle di Agrigento sei arrivato con la tua presenza ingombrante, tu omone grande e grosso, la camicia fuori posto, anche quella un tuo segno distintivo, i capelli chiarissimi, gli occhiali spessi e quella sedia, che rimediavi tra i banchi e che piazzavi ogni volta al centro della classe. Non ti sei mai seduto dietro la cattedra, non ti sei mai messo sul pulpito, hai sempre insegnato alla nostra altezza. Sin dal primo giorno, quando ti sei presentato: “Piacere signorine, sono il professore Lillo Sciortino e vi farò innamorare della Storia e della Filosofia. Vedrete che tra dieci, venti, trent’anni mi darete ragione.”
Ed avevi ragione, caro prof.
Quando insegnavi ci facevi innamorare: perché le parole si disponevano una sopra l’altra come scritte a stampatello. Perché per te l’insegnamento non era un esercizio da ripetere a memoria, non era una professione. Penso, con presunzione, che fosse la tua ragione di vita. Dietro ogni parola mettevi pathos, inteso etimologicamente ed insieme a quello anche “simpatia”, che una volta ci spiegasti significava, in essenza, capacità di condividere emozioni.
Scompaginasti le regole piccine, che i soliti retaggi scolastici ci avevano insegnato.
I tuoi studenti non hanno mai imparato la lezione sui libri. Bastavano le tue parole: che pronunciavi come se stessi recitando un monologo a teatro. Gli occhi socchiusi, il tono mutevole: ora pacato, poi improvvisamente profondo, le mani alzate al cielo, quando la narrazione toccava l’apice. E non erano pose le tue, giammai. Era, appunto, il tuo pathos naturale e quella simpatia, che trascinava la classe intera a fare parte delle tue emozioni. Perché, caro prof, tu ti emozionavi a parlare dei miti di Platone, il tuo preferito era quello del Carro e dell’auriga. Lo ricordo ancora, da allora e come allora. Poi quella volta che spiegasti la battaglia di Sedan, sembrava quasi che fossimo anche noi dentro quel campo. A un certo punto chiosasti drammatico con un: “Sedan, Sedan, Sedan” e una mia compagna, la simpaticissima Valentina Messina, non resistette e fece la rima: “Sedan, Sedan, Zinedine Zidane”. Calò il silenzio e tu cosa facesti? Ci piantasti sopra una risata di quelle grasse, di cuore, felici. Da persona davvero intelligente quale eri.
Una volta ci dicesti: ragazze mie, vi garantisco che ricorderete storia e filosofia, così per come ve le spiego, per almeno altri trent’anni. Le racconterete ai vostri figli.
Ed avevi ragione.
É merito tuo se ricordo a memoria e a perfezione le vicende di Anna Bolena, di Elisabetta “la bastarda”, della pratica delle enclosures, di madame de Pompadour, Comte, il positivista, il fenomeno e il noumeno di Kant, la triade dialettica di Hegel e molto altro. Giuro non sto googlando e non sono neppure una secchiona. Dimostro solo che il sapere, se è condivisione, se è trasmissione di emozioni, diventa una affare facile, un patrimonio per tutti.
Non sei mai stato severo
Mai un rimprovero aspro, non ci hai mai umiliate. Avevi il dono dell’autorevolezza. Bastava uno sguardo silenzioso, per comprendere che ci si doveva rimettere in ordine. Non ci hai mai interrogate a tradimento e non hai mai avuto il talento sbagliato di punire i tuoi studenti, nel tentativo maldestro di portarli sulla retta via. Parlavi di un metodo destruens e di uno costruens e utilizzavi sempre il secondo, nell’obiettivo di educarci a essere “adulti migliori”.
Sei stato un uomo perbene, oltreché un grande insegnante, probabilmente il più grande che io abbia incrociato nella mia vita.
Ricordo la gita di quinto anno a Parigi: temevi che qualcuna di noi non facesse in tempo a scendere dalla metropolitana. Ti mettevi in coda e uscivi per ultimo. Ed una volta effettivamente tu e una mia compagna, Brigida Morreale, non faceste in tempo, ci salutaste con la manina e per caso vi siete goduti un pezzo di Parigi, che noi non abbiamo fatto in tempo a visitare.
Sempre durante quella gita, sono stata male: emozioni da primo volo fuori dal nido, mischiate a una brutta indigestione. Vidi le stelle. Ricordo con quanta amorevolezza mi sei stato vicino: un papà, anzi il migliore dei papà, che una figlia possa desiderare quando si sente fragile.
Eri buono, professore mio adorato, e ora scusami ma mi scendono le lacrime e seguitano ripensando a quella telefonata, che ti ho fatto qualche settimana prima degli esami di stato.
Tu non comparivi nella rosa dei membri interni. Mi sentii disorientata. Per me eri un faro: il prof enorme, che ti accoglie, che ti fa sentire al sicuro, che come un papà buono ti sorride e dentro quel sorriso ti suggerisce la risposta esatta.
Al telefono azzardai: “Prof, la disturbo?”
Tu, con tono gioviale: “Signorina, la mi dica?”
“Senza di lei, io quasi quasi non mi presento agli esami.”
Anche quella volta ci piantasti una grassa risata, di quelle che sdrammatizzano, senza minimizzare.
“Signorina Maristella, ma se io ti ho dato dieci in Storia e dieci in Filosofia, vuoi che i miei colleghi ti diano zero all’esame. Forza. forza, fai vedere chi sei e mi raccomando un’arrussicari (non arrossire). Ma poi da grande non devi fare la giornalista tu? E ti scanti di quattro professori che ti devono interrogare? E quando poi dovrai parlare davanti a cento e cento persone come devi fare? Amunì Maristella, non fare storie, fai vedere chi sei.”
Caro prof, sapevi essere “spartano” nel darmi coraggio e quello era forse il segreto perché quella forza arrivasse a destinazione. Non te l’ho mai detto, ma sei stato una delle persone che in me ha creduto davvero, che mi ha dato la spinta giusta per realizzare quanto volevo dalla vita. Ero timida, goffa, imbranata, ma tu mi trasmettevi stima e mi incitavi all’autostima, che è fondamentale per andare avanti nella vita. Non ti sarò mai grata abbastanza per questo. Sei stata una delle poche persone che, negli anni della mia adolescenza, ha saputo leggere tra le righe dei miei non detto, tra le mie gote che arrossivano spesso e dentro quei sogni chiusi a doppia mandata dentro la camera a sud del mio cuore.
Due anni fa di questi tempi ci siamo ritrovati. Ti ho invitato a una manifestazione organizzata dalla mia redazione.
“Pronto, prof Sciortino, sono Maristella, ricorda?”
“Certo che ricordo, sei Maristella, che arrossiva sempre, che amava scrivere, che voleva fare la giornalista, che non voleva fare gli esami di Stato perché io non ero membro in commissione. Maristella, io ricordo tutti i miei alunni, uno per uno. Non vi potrei mai dimenticare.”
Quella fu una giornata bellissima: di sole, di mare, nella tua San Leone. Tu, caro prof, eri felicissimo e in forma smagliante. La tua presenza fece sì che si riunisse buona parte di quel corso D, di cui andavi fiero. Ci stringemmo intorno a te, in una foto in cui tutti sorridiamo felici. Quando ci siamo salutati mi hai detto: “Grazie Maristella, perché in questo evento hai voluto parlare di scuola. Ricordati che la scuola è la prima cosa, la più importante. Tu non saresti una giornalista, se non avessi frequentato una scuola che ti ha regalato un sogno e che ti ha dato gli strumenti per realizzarlo.”
Avevi ragione caro prof. Non sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. A saperlo avrei vinto la timidezza (che ancora è la cifra della mia vita, sebbene io abbia imparato ad addomesticarla), ti avrei abbracciato e ti avrei detto grazie.
Grazie per il coraggio che mi hai dato in quegli anni di vita che, mentre li percorri sembrano un tunnel e quando li rivedi da lontano pensi: mannaggia, come potevano essere facili e quanto invece li ho resi complicati. Grazie per quella volta a Parigi, per le tante mani sulla mia spalla, per il sorriso buono. Per avermi detto con tono “frivolo” ma convincente: “Da grande non devi fare la giornalista tu? E ti scanti di quattro professori che ti devono interrogare? E quando poi dovrai parlare davanti a cento e cento persone come devi fare?”
Grazie perché quella volta al telefono mi hai insegnato che nella vita si deve rispondere presente sempre, anche quando le condizioni non sono quelle che vorremmo.
Grazie, perché, se nella vita faccio quel che sognavo di fare, lo devo anche a te e oggi mi permetto di darti del tu, come farei con uno di famiglia, con un amico caro, con un confidente, con un papà. Perché oltre a essere un prof sei stato anche tutto questo. Grazie e buon viaggio, certa che dove ti trovi sarà un luogo vista mare, quel mare che hai amato tanto.
Ps: Il professore Lillo Sciortino è stato uno stimato prof. agrigentino di Storia e di Filosofia. É stato anche uno stimato storico ed opinionista. É “partito per il grande viaggio” ieri sera, dalla sua adorata Agrigento.
Una risposta
bellissima storia. grazie di cuore