“Maristé, te lo ricordi quando andavamo al mare a lido Azzurro?”
“Me lo ricordo sì!
Erano i nostri anni perfetti.”
“Perché Maristé, esiste la perfezione?”
Grondavamo di salute e di una bellezza fisica struggente. Ce la ricamava di sopra la gioventù. In testa ci frullavano sogni e ideali grandi così.
“Tu che volevi diventare la Gruber, anzi di più, vincere il Nobel e io che volevo diventare la Montalcini”
Perfezione dentro il tempo della gioventù? Io ero convinta dell’esatto contrario.
Godevo dei primi barlumi di libertà con il timore di essere scoperta. Seppure non avevo nulla da nascondere.
Sono nata e cresciuta in provincia, in un tempo in cui certe cose erano ancora “libertinaggio”. Andare al mare con gli amici era una delle prime conquiste verso l’indipendenza.
I patti erano chiari: si andava in comitiva mista, maschi e femmine, con il pullman, che partiva da Casteltermini alle 8 del mattino, ci portava a destinazione un’ora dopo, non prima di aver fatto sosta in una serie di paesini dell’interno. Un viaggio senza fine, con i finestrini aperti a “fare corrente” contro l’arsura di agosto.
Chi poteva saperlo che questa era una forma primordiale di felicità?
L’eldorado ero lo spiazzale del mare di Porto Empedocle. Lì vi era il varco di una schiera di lidi.
Per noi paesani di colle, la scelta epidermica e generazionale era sempre la solita: lido Azzurro.
Iniziava una giornata senza fine. Un paio di ombrelloni e qualche sdraio, teli mare sparsi dappertutto, zaini pieni a uovo di panini e bevande. Creme solari ultra-abbronzanti, in sottofondo la musica, che era molto più bella di quella di oggi.
“Scrivimi” di Nino Buonocore, “Infinito” di Raf, le canzoni ballarecce e un filo cafonesche dei Gipsy Kings e tanta altre colonne sonore di segreti, primi baci, paura di cedere allo scandalo.
Perché quella era la mentalità di provincia
C’era il terrore del peccato mortale.
Di certe cose che non si fanno, perché sarebbero state una colpa troppo grande da portare sulla coscienza.
Certe cose le facevano le cattive ragazze, che erano perfettamente catalogate, in quella latitudine d’entroterra. Oppure le straniere. Le tedesche, le francesi e le peggiori, le belghe.
“Occhio alla birgitane, non ci camminare insieme, che sono tutte bottane!”
Mi ammoniva un mio zio, ogniqualvolta mi vedeva prendere il largo nelle serate d’estate in provincia.
Le “bergitane”, termine non troppo elegante per definire le immigrate siciliane in Belgio, avevano fama di essere ragazze di facili costumi. Ed era, ovviamente, uno dei tanti luoghi comuni di quel tempo.
In verità ne ho conosciute un paio assai rigorose, e castigate. Le dicerie vanno così: le butti e non le recuperi più. Qualcuno le prende al volo e le rilancia con maggiore vigore. Si va avanti così per lunghi giri miserabili.
“Le birgitane tutte bottane. Alla larga!
Dicevo delle giornate al mare a Porto Empedocle: che spiaggia senza fine, che libertà mettersi a mollo, senza sapere nuotare e farlo finalmente lontano dalla brigata di genitori, che avevano il terrore della congestione. Tre ore lontano dall’acqua era il diktat e poco cambiava l’aver mangiato un panino “schitto” o una razione di cannelloni al forno.
Uno, due, tre.
Ricordo che una volta, insieme alla comitiva del tempo, ci siamo presi per mano, abbiamo creato un cordolo umano e via tutti in acqua.
Una ragazza assai spartana, al momento del tuffo, urlò: “Ragazzi, torno indietro, mi è salito il rutto del panino con il salame”.
Se la diede a gambe levate, temendo di finire stecchita e di rovinarsi la felicità di quella giornata al mare.
“Maristé, e ora perché te ne vai sempre a Menfi e non ci vieni più a Porto Empedocle?”
Perché i posti del cuore cambiano. Anche se non prendono il posto di altri. Vanno per somma. Per età. Per abitudini e anche per amori.
Sai, i palermitani chiamano Menfi, Manfi. Con la a al posto delle e. Chissà perché. Forse non se ne accorgono neppure.
“Loro sono palermitani, possono fare come gli pare. Almeno così credono.”
”Via, non esagerare…”
”Maristé, ormai ti facisti palermitana sfacciata puru tu.”
Al mattino, in questo borgo di mare, che conosco da tanti anni, da quando qua non c’era nulla, solo, appunto l’amore per il mare, per la solitudine, per la natura, mi rifugio in un bar d’altri tempi.
Vi si arriva dal mare.
Nel senso che passeggio per oltre un km lungo la spiaggia, quindi mi immergo, cammino per un po’, acqua alla pancia, finché approdo in questo luogo semplice, fatto di tavoli di legno marrone chiaro, coperti da cerate di plastica e decorati con dei fiorellini stoffa, reduci delle cose belle, ma di poco gusto, degli anni ’80.
C’è qua una terrazza affacciata su una baia larga poche decine di metri.
Non si soffre mai il caldo.
Il proprietario ogni domenica fa le previsioni meteo della settimana.
”Oggi soffia da ovest, verso est. Le vedi le onde, che si annacano tutte a sinistre? Avremo frescura per qualche giorno.”
Non sbaglia mai!
Mi pare di stare dentro una scena di Mediterraneo di Salvatores o di Ferie d’agosto di Virzì. Due film che amo molto. Che raccontano il caldo, l’estate e il mare nella sola maniera che me li rende amabili.
Perché io non sono una creatura marina, a dispetto del mio nome.
Io amo la montagna. Vado in visibillio solo a vedere da lontano le Dolomiti.
Al mare soffro.
Tranne quando questo elemento ancestrale non mi offre riparo con lentezza, centellinando la gente, la musica pessima di questo periodo, la felicità a ogni costo.
Impresa ardua ad agosto.
Eppure in questo localino nascosto, dove bevo il primo caffè del mattino, il sogno si avvera e si rinnova ogni giorno. Poco dopo l’alba faccio il primo bagno, leggo le pagine di un libro, scribacchio qualcosa e trovo la pace.
Poi mi rintano come una talpa e torno a lavoro.
In piena estate non sono né delfino, né aquila. Sono un animale da nascondiglio: una marmotta, una lumaca, un bruco.
È una mia scelta il lavorare in questo periodo dell’anno. Mi conforta e mi dà la scusa per non fare cose che non mi va di fare.
I luoghi del cuore cambiano.
Qua vi è la colonia degli amici del mio bambino, che sono figli dei miei amici.
Facciamo squadra.
Perché ai tempi miei (chissà perché definiamo “tempi nostri” quelli della gioventù, dell’essere in forze), le famiglie erano allargate e non si aveva paura di nulla. Men che meno di patire la solitudine estiva, che sa essere una piaga. Oggi le famiglie sono piccine, i nonni poco audaci, gli zii sono sparsi per il mondo.
“È il tempo che cambia Maristè”
Già, ma io sono nostalgica.
Penso allo spiaggione di Porto Empedocle, che forse non brillava per poetica, ma era una delle cose che mi riempiva il cuore.
Penso al viaggio senza fine e senza aria condizionata per approdare all’eldorado. Una sorta di pellegrinaggio dove non c’era un santo da venerare, ma il mare, che per noi siciliani di collina era una divinità.
Eravamo felici quando all’orizzonte vedevamo quella schiera di lidi d’altri tempi. Con il bancone del bar con quattro cose depositate dentro: un trancio di pizza, uno sfincione, un paio di arancine. Tutto a mille lire.
Inziava così la lunga giornata al mare, dalle 8 alle 19. Tante ore, che passavano in fretta. Come tutte le cose belle. Al ritorno, arsi vivi dall’impatto del solleone sulle nostre creme ultraabbronzanti, eravamo ubriachi di libertà, seppure ammoniti dalle raccomandazioni dei genitori. Sotto l’ombrellone leggevamo “Cioè”, che parlava di passioni estive, di amori sotto l’ombrellone. C’era anche la rubrica della sessuologa e noi la leggevamo curiose, fantasticando sul peccato mortale. Su cose che erano dell’altro mondo per noi quindicenni di quel tempo e di quei luoghi.
“Da sola con i maschi non si va da nessuna parte. Occhio alle birgitane, che sono tutte bottane”.
Sempre lo stesso zio.
Per mia fortuna, i miei genitori, seppure gente di paese, erano emancipati a sufficienza, per non contaminarmi con astruse teorie. Impiegati statali ad Agrigento, sia mamma che papà. Avevano ammanzito la mentalità rigorosa di paese, con il respiro cittadino.
Sempre quello zio, la volta che un buon partito del paese mi propose, a scatola chiusa, di fidanzarci, mi chiamò da parte. Serissimo. Lo sguardo irredimibile di un san Pietro davanti alle porte del Paradiso.
“Maristé, ascoltami, ancora giusta sì?”
Ho esitato un attimo, poi ho compreso.
“Perché se non sei più giusta, questa mala parte a Peppineddru non gliela possiamo fare. Noi siamo famiglia di rispetto!”
Avevo 24 anni.
E dovevo essere giusta!
Sorrido, oggi.
A quel tempo ho avuto timore e anche un languore di vergogna.
Le parole che sono come le ciliegie.
Dal parlare dell’estate al mare al finire su certi principiamenti.
“Era bello però il mare di Porto Empedocle, vero Maristé? E queste tue amiche di Palermo, che ti chiamano Mari. Quale Mari e Mari, noi sempre Maristè ti chiamavamo e ti chiamiamo ancora, al limite Mariù”.
Mari, il plurale di mare. Effettivamente non é un nome che mi calza a pennello.
É vero. Le mie amiche migliori continuano ancora a chiamarmi Mariù, che é un’inflessione dialettale di Maria. Lo fanno solo loro e a me piace che sia così.
”Mariù”. Un suono così arcaico, tanto dolce, il nome della Madonnina, come dice sempre la zia che mi ha aiutata a crescere.
Qualcuno mi chiama Stellina, come mia nonna.
“Vedi di finirla di darmi della paesanotta, che si dà arie da cittadina. Tu che sei andata al nord e dopo due giorni guarda che accento ti ritrovi. Poi, ti basta riprendere le misure con noi del sud e parli il dialetto più stretto di tutti”.
Altro paradigma indecifrabile: i meridionali trasferiti al nord acquisiscono all’istante la parlata settentrionale, salvo poi recuperare le origini, una tantum, con incursioni in un dialetto antico, addirittura incomprensibile.
“Maristè, sto da due giorni al nord? Magari, sono passati venticinque anni!”
“Cosa dici? Non può essere. Pare ieri che andavamo al mare con il pullman e passavamo giornate intere ad abbrustolirci a lido Azzurro. Che le birgitane erano tutte bottane e che per sposare un buon partito dovevamo essere ‘giuste’, perché una ragazza che faceva l’amore, per amore o per gioco, era sbagliata. Venticinque anni sono passati? Ma dai, io mi sento ancora una bambina.”
“Maristè, il prossimo anno andiamo a lido Azzurro, che dici e non farti chiamare più Mari, che é pure tascio!”
“E tu piantala di parlare da polentona. Sempre dal paese sui colli veniamo. Dove la libertà era un giorno al mare in pullman, rubarsi un bacio alle feste di diciotto anni, fuggire dal peccato mortale e pensare che io sarei diventata Lilli Gruber e tu la Montalcini.”
“Per queste ultime cose abbiamo ancora tempo…”
“E già…”
E già…
Intanto torniamocene per un giorno al lido Azzurro.
Amuní!