Trenta secondi che distruggono 309 vite e fanno crollare 700 anni di storia. L’Aquila, 6 aprile 2009, ore 3 e 33 della notte, una scossa di magnitudo 6.3 quindi il buco nero. Comincia da lì la storia che vi raccontiamo a dieci anni da quella notte di buio, morte e disperazione. Una storia che, nella tragedia, punta un faro di speranza.
Quel 6 aprile del 2009 a l’Aquila c’era anche Clara Lo Manto, una giovane studentessa di Scienze Infermieristica, arrivata nel capoluogo abruzzese dalla Sicilia, da Casteltermini in provincia di Agrigento. Clara è una tra i sopravvissuti. É tra quelli che hanno visto la morte con i loro stessi occhi, si sono sentiti da questa osservati eppure sono riusciti inspiegabilmente a scamparvi.
Clara, perché ti trovavi a l’Aquila?
Ero lì per ragioni di studio. Frequentavo l’ultimo anno della facoltà di Scienze Infermieristiche. Mi ero trasferita pochi mesi prima dall’ateneo di Parma. Pensare che avevo fatto domanda per alloggiare nella Casa dello Studente. Per delle lungaggini burocratiche, la mia istanza non fu accolta. Ci rimasi male e dovetti prendere una casa in affitto con altre studentesse. Chi doveva dirmelo che quell’intoppo sarebbe stato la mia salvezza.
Cosa ricordi di quella notte?
Ricordo molto già del giorno precedente. C’era stata una sequela di scosse di terremoto. Brevi, modeste ma continue. Quella sera però ero con il fiato sospeso. Sentivo qualcosa dentro di me, che mi faceva avvertire il pericolo imminente. A dire il vero, le scosse si susseguivano da dicembre, ci eravamo quasi abituati, ma il 5 aprile era diverso. La sera decisi di andare a letto in tuta, come se presentissi il pericolo della fuga nottetempo. Non bastò. Con la mia coinquilina Stefania, pensammo di dormire nella sua stanza. Non riuscivamo a prendere sonno. Avevamo paura di tutto e di nulla, la tv ci teneva compagnia. Alle 3 e mezzo circa il finimondo. Non so spiegarlo a parole: un terrore del genere è difficile da raccontare e durissimo da ricordare. So solo che tremava il pavimento, il letto, le pareti, il tetto. Veniva giù tutto: mobili, scaffali, libri. Io e Stefania abbiamo avuto la lucidità di rifugiarci sotto una trave in attesa che quegli interminabili 30 secondi passassero. Dicono che sia durato tutto “solo” mezzo minuto. Credetemi, mi è sembrata un’eternità, la porzione di tempo più lunga della mia intera vita. Fortuna che mi trovavo nella stanza della mia coinquilina. Sul mio letto, nella stanza a fianco, era caduto un pezzo di soffitto. Vi lascio immaginare se mi fossi trovata là.
Cosa avete fatto dopo la scossa di terremoto?
In preda al forte istinto di sopravvivenza, abbiamo cercato la via d’uscita. Non era facile perché c’erano calcinacci e mobili crollati dappertutto. La scala condominiale era in parte impraticabile, eppure siamo riuscite a uscire fuori di casa. Eravamo salve e la voglia di vivere ci ha fatto trovare un varco tra la disperazione, le macerie e urla intorno. Da lì, insieme a un nostro collega universitario, abbiamo raggiunto un posto in periferia: largo, aperto, che ci pareva sconfinato. Insieme a noi c’erano centinaia di persone. Eravamo i sopravvissuti: increduli, confusi, con il terrore poggiato tra pelle e cuore. C’era gente seminuda, chi in accappatoio, molti erano scalzi. In sottofondo urla disperate: c’era chi avevano perso la casa o peggio dei familiari. Era un clima di morte, di sfacelo, di un dolore che io, ancora giovanissima, non pensavo neppure potesse esistere e tantomeno lambirmi. A l’Aquila volevo realizzare il mio sogno: diventare infermiera e invece lì ho visto la morte e la rinascita nel giro di 30 secondi.
Cosa avete fatto nelle ore seguenti il sisma
Non erano neppure le sei del mattino quando ho chiamato al telefono i miei genitori. La mia telefonata doveva per forza arrivare prima delle notizie dei Tg. Abbiamo pianto in silenzio: loro avevano una figlia sopravvissuta e io potevo sentire la voce calda di mamma e papà. In quei trenta secondi, in cui la morte mi ha sfiorata il viso, ho pensato a Dio, a mamma e a papà. Ho pensato a loro con tutta me stessa. Ce li avevo ancora e loro avevano ancora me. Dopo, insieme ad altri colleghi universitaria, siamo andati alla ricerca di Daniela, una nostra collega fuori sede.Era tornata pochi giorni prima, insieme con il fidanzato, che sarebbe dovuto ripartire il 7. Abbiamo raggiunto la casa: era distrutta. Non c’era alito di vita. Inutile dirvi come è andata per loro.
Sei più tornata a l’Aquila?
Assolutamente sì. L’obiettivo di completare i miei studi non poteva essere fermato dal terremoto. Ad agosto del 2009 sono tornata come volontaria e a settembre come studente. A novembre, sempre di quell’anno, ho conseguito la laurea. Quel giorno è stato un continuo fremito del cuore. Insieme a noi sopravvissuti, hanno proclamato tutti quei colleghi che non ce l’avevano fatta. Lo meritavano e tutti noi dovevamo loro un omaggio.
Cosa è cambiato in te dopo quella notte?
Per diverso tempo sono stata sotto choc: temevo i rumori, anche quelli banali, per non parlare di lampi e tuoni. Non nego che, nel periodo immediatamente successivo il terremoto, ho dormito per qualche tempo con mamma e papà nel lettone. Il mio corpo e il mio cuore avevano bisogno di essere contenuti, di sentirsi al sicuro. É grazie ai miei affetti familiari se ho superato la fase critica dello choc. Ci è voluto del tempo, ma ora va molto, molto meglio. Dimenticare è impossibile. Un tempo pensavo al terremoto sempre: ogni giorno, quasi a tutte le ore. Adesso mi sono riconciliata con la paura ed il ricordo, quando viene a trovarmi, fa meno paura.
Com’è la tua vita oggi?
Sono un’infermiera e lavoro al reparto di Cardiologia dell’ospedale San Giovanni di Dio. Mi occupo degli altri, così come sognavo quando ero ancora ragazzina. Sono moglie e mamma di uno splendido bimbo di tre anni e mezzo. La vita è stata generosa con me. Oggi vivo nella consapevolezza delle cose davvero importanti. Dieci anni fa ho compreso che la vita non è mossa da un marchingegno più grande di noi, che può scompaginare i nostri piani quando meno ce lo aspettiamo. Ci illudiamo di avere controllo sul nostro pezzo di mondo, ma non è così. Da allora ho imparato una leggerezza positiva, quella che fa andare all’essenziale e che lascia indietro i piccoli contrappunti del quotidiano.
Cosa pensi a dieci anni da quel giorno?
Penso a chi non c’è più. Come dimenticare le vittime. Penso che mi era sembrato solo un brutto sogno ed invece era realtà, la più drammatica. Penso anche che la vita mi ha dato una grande possibilità e che devo sfruttarla al meglio.
Grazie Clara e ad maiora!
Nel sisma del 6 aprile del 2009, che ha colpito l’Aquila e l’intera conca aquilana, sono morte 309 persone. La più giovane di queste era ancora nel grembo di mamma Giovanna, il cesareo era programmato nella mattina del 7 aprile. 1600 i feriti, 200 dei quali gravissimi. Dieci miliardi di euro i danni stimati. Il comune più colpito è stato Onna, a pochi km dall’Aquila dove è deceduto un abitante su cinque. Le opere di ricostruzione di tutto il territorio, colpito dal sisma, sono ancora in atto. Decine e decine le famiglie che vivono ancora nelle casette di legno, costruite immediatamente dopo il sisma o nei moduli provvisori prefabbricati, che ospitano anche alcune scuole.