Sono cresciuta con il culto dei nonni. Una venerazione allevata grazie a dozzine e dozzine di ore passate insieme a loro. Di notti in un lettone, quello dell’indimenticabile e indimenticata nonna Tatà, dove c’era posto per tutti i nipoti. Di maratone di cartoni animati, pane e zucchero, disgustoso gelato amarena e zuppa inglese molto anni ’80, adunate anche a ore “illegittime” (perché il focolare dei nonni era sempre scoppiettante). Poi, dall’altra parte della famiglia, c’era la casa piccina dei nonni Stella e Raffaele. Ordine, passeggiate al villino comunale, scrittoio e abbecedario e poi lui, il nonno: una sicurezza, la mia. L’ho frequentato “solo” per nove anni (al netto dei primi due, in cui la vita di ciascuno di noi ballonzola tra scoperte, incoscienza e rimasugli di ricordi, impossibili da mettere in fila). Nonno Raffaele: per descriverci basta dire che ho chiamato come lui mio figlio.
I nonni di oggi
Ero convinta che tutti i nonni sarebbero stati come i miei: baby sitter di famiglia, cuochi, autisti, granitici, sicuri per sè, per i genitori deleganti e per i nipotini da accudire. I tempi però cambiano. Non che nonni come quelli non ne esistano più, sono però una razza in via di estinzione.
Da quando sono mamma ho imparato a conoscere il mondo dei nonni (in primis quelli di mio figlio ed in secundis quelli della folta rete di amici, creatasi attorno alla nuova condizione di genitori).
Sia chiaro, questo articolo non vuole essere un vademecum sui doveri dell’essere nonni con tanto di bacchettata finale. Lungi da me. Tutt’altro. Volevo condividere una sfumatura conosciuta grazie ai cosiddetti nonni “quanto basta”, forse la categoria più diffusa oggigiorno.
I nonni quanto basta
Una volta diventata mamma, una serie di congiunture non proprio favorevoli, hanno fatto sì che mia madre non abbia potuto starmi vicina. Lo aveva fatto per tutto il tempo della mia non rosea gravidanza (faville comprese)…una volta nato il bimbo, il caso, con le sue imprevedibili iniziative, ha voluto che dovessi spicciarmela da sola. Onore al merito del mio (super) marito che approfittò di ferie, riposi e festività per essere la mia spalla in tutto e per tutto (nottate, pannolini da cambiare, pagliaccetti da stendere e pranzi da preparare…all inclusive). A un paio di settimane dalla nascita di Raffaele, arrivò il giorno in cui io e quel fagottino (minuscolo perché prematuro) restammo da soli per la prima volta. Erano le 4 e 39 del mattino (mio marito aveva un turno praticamente all’alba). Piansi le lacrime piu lente, dense e consapevoli della mia vita. Provai un sentimento nuovo. Non era paura. Raffaele, seppur piccino, mi sembrava sconfinato. Era il miracolo della mia vita. Io mi sentivo piccola di fronte a lui. Esitai. Aprii di poco le persiane. Era buio. Mi rincuorò un ricordo. Da ragazza, adoravo quell’ora in cui è quasi l’alba e le luci della notte iniziano a far filtrare quelle del giorno, come a lanciare un minuscolo e quotidiano segnale di speranza. Poco dopo Raffaele iniziò il pianto irragionevole dei lattanti. Lo attaccai al seno. Per la prima volta eravamo soli del tutto. Carezzai il suo visino largo appena pochi centimetri. Era una miniatura di bellezza. Andò avanti così per alcuni giorni. Io e Raffi ad aspettare il papà, le poppata belle, intime ma non prive di fastidi. Poi la trafila dei miei pasti disorientati, ma che ricordo a memoria. Per cause di forza maggiore, non avevo la possibilità che qualcuno mi aiutasse a preparare il pranzo (vivo in una metropoli ed era tempo di ferragosto). Mangiavo quintali di pizze e gelati, con il privilegio, che hanno le mamme che allattano, di non mettere su un solo etto. Raffaele gradiva. Lavavo a mano dozzine di body (mi ero convinta che la lavatrice non fosse igienica per un bimbo tanto piccolo?).
Il privilegio del non avere aiuti
Eravamo soli quando ha riso per la prima volta. Soli quando ho avuto un sonoro mal di testa e ci siamo acciambellati vicini vicini, mano nella mano. Lui, come se capisse, non pianse. Rimase docile e con gli occhioni spalancati a confortarmi. Mi fece compagnia quando dovetti andare dal senologo per un ingorgo e non avevo a chi lasciarlo. In quel periodo pensavo spesso ai miei nonni. A quanto onnipresenti fossero stati. I nonni di Raffaele, lo ribadisco per sincera correttezza, non c’erano perché non potevano (vivono tutti, zii compresi, a diverse centinaia di km di distanza e in quel periodo si accavallarono una serie di sfighe). Quei primi mesi, a rivederli con lucidità, sono stati duri, belli, sconfinati. Lunghi sebbene siano passati in fretta. Raffi non ha mai avuto un rapporto full time con i nonni. I miei genitori scelsero di passare un anno e mezzo nella mia stessa città. Per scelta di tutti (i miei non sono più due giovanotti e stare dietro al mio piccolo è per loro difficile) Raffaele è rimasto con loro non più di un paio d’ore di seguito e solo in casi di esigenze estreme. Con mio marito ci siamo concessi una cenetta romantica aspettando che lui si addormentasse e scegliendo i giorni in cui i locali fossero deserti per evitare rumori, che lo facessero sobbalzare. Siamo stati al cinema a vedere il film un tempo per uno. Abbiamo litigato perché ci sarebbe piaciuto avere il tempo di tornare coppia anche solo per un paio di ore. Poi, con il passare dei mesi, abbiamo conosciuto il mondo delle tate, le librerie, la ludoteca, il nido e pian piano la triade è tornata a fare posto alla coppia, ma ancora di più al singolo.
Poi torna il caos, lo stress, le notti insonni, elementi che fanno parte di qualsiasi (o quasi) genitorialità.
I nonni di una volta
Ogni tanto penso ai miei nonni (che forse sono santi in quella porzione di paradiso riservata a chi ama a prescindere)…loro così sproporzionati nel saper dare. Vivevano per i nipoti! Chissà se era giusto così? È vero che nessuno deve dare quel che non può. Pretendere è sempre un ardimento. Un merito va riconosciuto ai nonni “q.b”. Che siano tali per scelta o per necessità, fanno inconsapevolmente un dono ai loro nipoti. Li regalano direttamente ai genitori, senza filtri, senza mediazioni affettive, al netto di stravizi. Se così non fosse stato, non ricorderei di quella prima alba da soli io e Raffaele a scambiarci la vita. Ero terrorizzata, ma ce l’ho fatta, perchè una mamma ce la può fare sempre. Da quella volta ci sono state altre albe da soli, altre trasferte di mio marito. Ce l’abbiamo fatta sempre. Se avessimo avuto dei nonni full time non sarebbe stata mia e solo mia la sua prima risata. Non sarebbe stato lui la terapia di quel memorabile mal di testa. Ha ragione una mia lontana parente quando ripete (lei che nonna non lo è stata) che i figli sono delle mamme. In verità lo sono per poco, per quel minuscolo tempo della dipendenza (infinito mentre lo vivi, ma irrilevante se visto da lontano). I figli sono delle mamme nell’età dell’accudimento, delle notti in bianco e dei respiri miscelati. Un tempo senza misura che, però, va via di fretta. Ci sarà altro tempo per la libertà…intanto ringraziamo i nonni “q.b” che, inconsapevolmente, regalano la libertà di essere liberamente figli e liberamente genitori.
Ps: questo post è una riflessione personale. Conosco mamme che crescono totalmente da sole i loro piccoli, anche senza il papà. Conosco neo genitori, che vivono dall’altra parte del mondo rispetto alle loro famiglie di origine, senza una sola spalla su cui appoggiarsi. Mi ritengo fortunata per tutta una serie di congiunture. Non nego e riconosco di aver vissuto, specie all’inizio (durante i lunghi turni di lavoro di mio marito) una porzione di solitudine, che mi ha fatto rimpiangere i miei nonni. Possibilmente molte mamme non hanno vissuto un sentimento simile. Alcune hanno prediletto l’assenza di aiuti o di compagnia, riconoscendo in questa autonomia e libertà. Ciascuna mamma e ciascun figlio scrivono la loro storia che è unica. È certo che una mamma può farcela sempre.