Malattia terminale: il confine filiforme tra la vita e la morte.
Un tema drammatico per il malato e profondamente doloroso per chi assiste.
Hospice, cure palliative, terapia del dolore, sedazione terminale sono termini conosciuti allorquando quando si percorrono i corridoi ospedalieri e umani del fine vita.
Può succedere d’improvviso, ma anche dopo percorsi di malattie lunghe, intrecciati con timori, speranze e rassegnazione.
Cosa sappiamo di questi temi? Quanto il nostro paese è preparato alla questione “dell’ultimo miglio” anche in termini di eutanasia?
Quest’ultima è legale in pochissimi paesi europei: Svizzera, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. Non si tratta di leggi identiche, quanto di varianti all’autorizzazione al suicidio medicalmente assistito, che hanno in comune l’oggettiva condizione di gravità e la libera scelta dell’ammalato.
In Italia, sebbene l’eutanasia sia considerata illegale, con la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, è stato sancito che non si integra il reato di aiuto al suicidio, se l’aiuto viene fornito a una persona malata che possegga i requisiti previsti dalla sentenza stessa e quando la valutazione delle condizioni di salute viene fatta all’interno del Sistema Sanitario Nazionale. Grazie a questa decisione, sono già stati diversi, i casi di persone che, seguiti dall’Associazione Luca Coscioni, sono riuscite a congedarsi da una vita di sofferenze.
Del fine vita, dei suoi aspetti emotivi, abbiamo parlato con il professore Daniele La Barbera, psichiatra e primario al Policlinico di Palermo.
Professore La Barbera, il malato terminale e chi lo accudisce, un dualismo doloroso e profondo, parliamone
Inizierei con una premessa semplice: non si è mai del tutto preparati al fine vita. Vuoi quando questo accade dopo un percorso di malattia breve, vuoi a margine di una lunga convivenza con una patologia grave.
Prendersi cura di chi sta per morire rappresenta per il caregiver una condizione difficilissima sia da accettare che da metabolizzare. Negli ultimi decenni il Sistema sanitario nazionale garantisce delle strutture ad hoc, che accompagnano il malato terminale verso la fine dei suoi giorni, garantendogli dignità e soprattutto lenendo il dolore fisico, occorrenza fondamentale nel rispetto del malato.
Entrano in gioco termini quali hospice, cure palliative, parole che sembrano lontanissimi “luoghi degli altri” e che invece possono riguardare da vicino chiunque. Come sostenere il malato e chi assiste?
Il malato, se arriva in queste strutture sanitarie in piena coscienza, è sicuramente al corrente di una patologia non più guaribile e sa bene che non sarà curato, ma che sarà assistito affinché non patisca dolore fisico. Si tratta di centri sanitari dotati di sostegno psicologico. Quando il malato vi afferisce in uno stato di incoscienza è necessaria la presa in carico del suo assistente, cosicché sappia cosa lo aspetta. Non c’è più la prospettiva del lieto fine, quanto quella del dovere accettare la fine.
Cosa non semplice per i più?
In quanto uomini, dotati di un complesso sistema emotivo, tendiamo a investire di emozioni molto forti il periodo finale della vita di una persona cara. Non è semplice prendersi cura di chi abbiamo amato, nella consapevolezza che assisteremo ai suoi ultimi respiri. Per questo sarebbe necessaria una rete sociale di sostegno, cosa che al giorno d’oggi è un’evenienza alquanto rara. Come farsi forza? Con una compensazione interna, che è possibile attivando una serie di ricordi positivi, legati alla persona che ci sta lasciando. Pensare che il tempo condiviso, se di buona qualità, si dilata in grande misura e può darci la forza per assistere il nostro caro nel suo ultimo pezzo di tragitto. Se riusciamo a ricontestualizzare la persona che soffre nel vissuto positivo condiviso insieme, nel tempo che ci ha uniti nelle cose belle, allora il dolore inizierà a trasformarsi in una forma di difesa e di controllo delle nostre emozioni più tragiche.
È vero quindi il detto che chi muore in realtà resta?
Questa frase ha un forte valore spirituale e umano poiché ci spiega che il modo migliore per elaborare una perdita è conservare la persona cara dentro di sé, renderla vitale nella nostra vita e riattivarla nel nostro quotidiano. Deve trattarsi di un atteggiamento oculato, non paranoico o ossessivo. Dobbiamo comprendere che la nostra vita deve continuare anche senza avere accanto quella persona cara, ma che potremo attingere alla comune eredità sentimentale, ogniqualvolta ne sentiremo il bisogno.
Quanto è importante sapere lasciare andare la persona cara?
È fondamentale e non solo per chi resta. Un’antica credenza indiana dice che un ammalato terminale ha maggiore difficoltà a morire quanto più lacrime e dolore lo trattengono su questa terra. Ed è così che, volendo seguire la cultura indiana, è bene aiutare il malato con frasi incoraggianti, il cosiddetto augurio di “andare con Dio” e di lasciare serenamente questa terra.
Non vi sono fondamenti scientifici, che confermino questa tesi, è certo però che anche il malato incosciente, necessiti di un clima di serenità intorno. Altro discorso riguarda invece chi resta. Sovente non si accetta la fine, si vorrebbero tentare tutte le carte possibili pur di tenere in vita la persona cara. È bene comprendere quale sia il confine tra l’amore e l’egoismo dell’accanimento terapeutico. Quando una malattia non è più curabile è bene accettare le terapie palliative nel rispetto della dignità di chi soffre, che viene prima di qualsiasi forma di attaccamento.
Eutanasia, in Italia a che punto siamo?
È un nodo difficile da sciogliere, che tocca tematiche etiche, morali, religiose. L’Italia, con l’azione di alcune note associazioni, ha ammorbidito certe posizioni. Resto del parere che una questione tanto importante e difficile da generalizzare, vada approfondita con una maggiore conoscenza del tema, con una condivisione comunitaria e con un confronto sano.