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Natale, quando non conoscevamo il calendario dell’Avvento

Quando ero piccina in Sicilia non era ancora arrivata l’usanza delle ventiquattro caselline. C’erano però tanti riti piccini, carichi di felicità

Quando ero piccina il calendario dell’Avvento non esisteva. Non dalle mie parti almeno. Sono nata e cresciuta in Sicilia e il rito delle ventiquattro caselline apparteneva, all’epoca, a latitudini tanto lontane dalle mie. Oggi è diverso. Sono settimane che mi prodigo per realizzare un calendario dell’attesa così da far felice mio figlio, che ne sente parlare in tv ormai da settembre. Quando ero bambina questi giorni di dicembre erano più da annusare che non da toccare. Ecco cosa era Natale quando ancora non esisteva il calendario dell’Avvento. Era l’odore di panni messi ad asciugare vicino alla stufa. Con quel profumo di vapore “al Vernel” che usciva fuori delizioso ed inondava la casa all’angolo dei nonni. La loro era un’abitazione poderosa, dove c’era spazio per ciascun componente la monumentale famiglia, che all’epoca era unita e pareva impermeabile alle tempeste della vita. Natale era l’albero storto con gli aghi scoloriti e pungentissimi. Le palline multicolori, che si sbriciolavano se solo ti scivolavano di mano. Era il mio giocattolo preferito, “acquistato da Babbo Natale” in un negozietto storico di via Roma a Casteltermini. Quel posticino accogliente avrà avuto sicuramente un nome ma per me, per tutti, era “u zzi Natali”, così si chiamava il proprietario che, manco farlo apposta, di cognome faceva Buono.

Le cuddureddi mangiate di nascosto

Natale era quel vassoio di “cuddureddi” che io e mio cugino Caló mangiammo di nascosto dal mondo intero il pomeriggio di una vigilia. Accomodammo quella disobbedienza all’angolo della camera da letto dei nonni. Lí avevano nascosto la guantiera con i deliziosi dolci di frolla e composta di fichi, uvetta, cioccolato e arancia. Un altro mio cugino, uno dei più grandi, si era fidanzato “ufficialmente” e quel vassoio era stato pensato in onore degli “ziti”. Poche cose furono belle come quella marachella da preadolescenti. Natale era il “Principe e il povero”, quel pomeriggio che lo vidi con nonno Raffaele, perché non avevamo nulla di meglio da fare. Era il 24 dicembre e noi lo passammo seduti su una vecchia poltrona cremisi, davanti a un piccolo Sinudine a colori, a non dirci nulla pur essendo esattamente felici. Ed anche quel film di Charlot, che guardai in una serata di festa con nonno Cola. Tutti erano nella sala grande a giocare a tombola e sgranocchiare dolciumi, in un rumore scomposto che sapeva di festa, di famiglie, di cose che ti fanno sentire al sicuro. Io e nonno Cola restammo in cucina a guardare un film in bianco e nero e non ci scambiammo una sola parola, perché mio nonno parlava poco e niente. In compenso ridemmo all’unisono e a crepapelle, regalandoci  un ricordo che è ancora qua, nonostante le tante stagioni trascorse.

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Natale alla Standa

Natale era la “gita” alla Standa di via Gioeni ad Agrigento, io, mia mamma e mia sorella. A comprare panforte, ricciarelli e finte praline svizzere, stucchevoli e disgustose, ma che puntualmente riacquistavamo “perché faceva tanto Natale”. É la Meano blanca, che Babbo Natale non mi portò mai, perché a me mancó il coraggio di chiedergliela. É mia zia che stilava una lista della spesa sufficiente a sfamare un reggimento. Ma se così non fosse stato, lei non ci avrebbe provato gusto e non sarebbe stato Natale. Natale é nonna Tatá, che era una donna intelligente ed aveva il dono del saper raccontare. Ed era anche quasi del tutto  sorda, ma in pochissimi ne erano al corrente e quasi nessuno se ne accorgeva. È i polli allo spiedo, la tavola calda “fredda”, lo sparecchiatavola che era trono di vassoi di mandaranci, ravanelli, finocchi e frutta secca. É il Melegatti al profitterol. Si faceva a gara a mangiarne “la crosta” di cioccolato e a evitare il resto. É i posacenere pieni di mozziconi. L’aria fumigante di sugo, sigarette e mandarini. É “é uscito il 27 ed il 39?”. Natale era mia nonna Stella, una donna piccina, elegante, dotata di una megalomania innocente. Non era fatta per stare in cucina a preparare manicaretti. Era esilissima, aveva seri problemi alla vista, al netto di tutto ciò però sono convinta che lei non fosse tagliata per la vita provinciale da casalinga. Aveva uno charme innato e a Natale, piuttosto che stare in cucina,  amava fare visite di cortesia ai tantissimi parenti ed amici, con i quali manteneva rapporti amabili, perché lei amabile lo era e senza alcuna altalena.

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Natale tra “amore e odio”

Natale é le liti e le conciliazioni. La ribollita familiare di nuovi e vecchi livori. Ed ancora: “per quest’anno in famiglia, ma il prossimo giuro che sarò in vacanza.” Perché all’epoca, in un paesino di collina, parlare di vacanze a Natale era un azzardo. Natale non sempre è una felicità perfetta. Magari è un ricordo che viene a prenderti alle spalle, mentre apri per caso un flacone di Vernel.

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