Si può sterminare la propria famiglia senza pietà e senza ragione?
È la domanda che attanaglia da giorni buona parte del paese.
Da quando si è consumata la strage di Paderno.
Da quando è parso di rileggere un copione: il paesino tranquillo, la famiglia perfetta, la persona normalissima, quindi il cortocircuito. C’é il particolare più inquietante, che sta nel protagonista della storia: un minorenne, che arma la mano e colpisce in primis il fratellino di dodici anni e quindi completa il massacro accoltellando a morte anche i genitori.
Nessun movente plausibile.
Nessuna storia di devianza o di dipendenza alle spalle del ragazzo.
Non fino a questo punto della storia.
O meglio, il giovane biascica agli inquirenti più di una versione dei fatti.
Tutte spiegazioni molto “liquide”.
Voleva sentirsi libero.
Libero da una famiglia e più in generale da una società piena di cliché, superficiale.
Si sentiva incompreso.
Voleva essere libero, addirittura, di cancellare le proprie radici e di fuggire per andare a combattere la causa degli ucraini, direttamente nel teatro del conflitto.
Gli inquirenti rendono noti piccoli dettagli, che sembrano visioni, distopie.
Motivazioni così bizzarre da alimentare quel senso generale di timore: verso questi tempi incerti, dove tutto sembra possibile, dove nessuno si sente al sicuro.
Ne abbiamo parlato con il professore Daniele La Barbera, psichiatra e primario al Policlinico di Palermo.
Professore, tragedie del genere possono davvero capitare a chiunque
Sebbene quanto accaduto nei giorni scorso a Paderno abbia delle sfumature da una parte di ordinarietà, dall’altra di inintellegibilità, dobbiamo avere anche certezza che sono episodi al limite. Tali cortocircuiti della mente sono rarissimi, seppure di una drammaticità che va indagata e compresa, proprio perché non se ne ripetano di altri. Le stragi familiari, nella storia italiana, ci sono state nel tempo passato e in quello recente: le vicende di Pietro Maso, Erika e Omar la strage di Altavilla Milicia. Ne ho citati giusto alcune. Sono storie molto differenti tra loro, che però hanno in comune una cosa: gli assassini hanno reso agli inquirenti un movente. Nel caso di Paderno non vi è ancora una causa concreta alla base dell’efferatezza del giovane omicida. Questo aumenta lo sgomento.
Il ragazzo potrebbe davvero avere agito senza un perché, in nome e per conto delle motivazioni molto labili, che sta rendendo agli inquirenti?
Al momento è presto per dirlo. Potrebbero uscire fuori delle motivazioni più concrete, una storia di disagio profondo con dei come e dei perché. Non è però il caso di azzardare supposizioni campate in aria. Qualora però le ragioni dovessero rimanere queste, ossia aver agito per insoddisfazione, noia, senso di solitudine e di inadeguatezza, ci troveremmo di fronte al caso, non isolato, di una persona dall’emotività completamente disarticolata rispetto al suo mondo circostante. Chi uccide “per niente” ha sicuramente una condizione mentale ed emotiva caotica e l’assassino, se così fosse, starebbe tentando di spiegare ciò che spiegabile non è.
Eppure la famiglia viene descritta con il termine più abusato: perfetta. Il ragazzo viene descritto come una persona normalissima. Partirei proprio analizzando questi aggettivi
In psichiatria il concetto di normalità, a maggior ragione se associato a storie del genere, fa sorridere. Come classifichiamo la normalità e ancor più la perfezione? Da cosa si evince che questa povera famiglia fosse felice? Dalle foto postate sui social? Dalle dichiarazioni di parenti e amici? La letteratura storica e il vissuto quotidiano ci ricordano che i drammi familiari si circoscrivono dentro le mura domestiche e che solo queste sovente ne sono a conoscenza. Così come è stolto pensare che possano esistere nuclei familiari anche solo lontanamente perfetti. Direi anzi che proprio questa insistenza sulla perfezione umana e familiare, che tanto va di moda nei nostri tempi internettiani, sta diventando un pericolo circolante. Si dovrà indagare meglio sul vissuto di questo giovane. Al momento la sola cosa che pare chiara è la sua totale disarticolazione affettiva.
Cosa intendiamo per disarticolazione affettiva?
Un’instabilità emotiva, un’interiorità caotica tale da distaccare l’assassino da qualsiasi forma di amore e perfino di pietà anche nei confronti della famiglia. Il diciassettenne non ha avuto umana pietas neppure per il fratellino, la figura più tenera del suo contesto, colpito alla gola nel sonno. L’escalation di sangue peraltro conferma la fermezza dell’agito criminale: viene ucciso prima il più debole, quindi la madre e in ultimo il padre, che nell’immaginario simbolico rappresenta il capo famiglia, la figura forte. Addirittura in un primo momento pare che l’assassino voglia risparmiarlo, quindi procede. Adesso occorrerà capire il mondo educativo del ragazzo, eventuali traumi, storie di solitudine. Lui ha dichiarato che da tempo non si trovava bene con il gruppo dei pari, che si era isolato. Quindi è verosimile che il giovane vivesse una condizione di incapacità di intessere legami, che ha trovato il culmine nello spezzare tragicamente anche quelli atavici e profondi con la famiglia di origine.
Storie di solitudine giovanile se ne contano tante, molte con epiloghi gravi: fatti di sangue, di autolesionismo, suicidi. Cosa sta accadendo ai ragazzi di oggi?
Sicuramente vivono la virtualità meglio della fisicità: in amicizia come in amore. Perché meno impegnativa, poco performante e soprattutto tutelante della fragilità, del non dovere venire allo scoperto per quello che si è. Un adolescente, come nel caso di questa vicenda, però non può vivere virtualmente la famiglia, con la quale si ritrova giocoforza, a convivere. Inoltre, la stagione estiva, soprattutto in Italia, si dilata perché costringe a lunghissime vacanze a casa per gli studenti. La coabitazione “forzata” peggiora i rapporti, aumenta i conflitti. Le temperature elevate stressano, a maggior ragione chi è mentalmente labile. Ricordiamoci inoltre che i ragazzi di oggi vivono più della metà della loro giornata connessi. A maggior ragione in estate, senza gli obblighi scolastici. Molti degli stimoli che ricevono da telefonini e tablet sono violenti: immagini di guerra (non a caso al giovane pare si sia attivato un trip mentale relativo alla causa ucraina), fattacci di cronaca, spesso raccontati male, tanta ostentazione dell’aggressività. Queste le cause di gesti tanto estremi? Non possiamo generalizzare, sicuramente però dobbiamo cercare di riportare i nostri giovani verso il mondo reale, così da connetterli alla dimensione affettiva familiare, amicale e sentimentale. Dobbiamo motivare il confronto fisico. Degli occhi che si guardano. Delle parole pronunciate di persona e non scritte su uno schermo. Per rieducare i nostri giovani alla sensibilità affettiva noi adulti dobbiamo essere da esempio. Se piazziamo un duenne davanti a uno schermo e nel frattempo anche noi ci sollazziamo pomeriggi interi sui social, stiamo sbagliando tutto. Quindi iniziamo noi adulti a disconnetterci, a fare qualcosa di pratico e di reale insieme ai nostri figli, piccoli o grandi che siano. Proviamo ad avvicinarci ai nostri giovani, a farlo con le loro unità di misura, nel rispetto dei loro tempi e non arrendiamoci ai primi no. Non è un’operazione semplice, ma è possibile. E ricordiamoci che fatti aberranti, come quello di Paderno, sono la risultante di tante cause: individuali, familiari, ma anche collettive. Riportarci come collettività a una dimensione umana è il primo passo affinché tragedie del genere non si ripetano.