Compio gli anni il 20 luglio. Nel 1992 ne compivo 12 e stavo organizzando una festicciola con i cuginetti e i compagni. Cose semplici, cose da bambini anni ‘90: le tartine maionese e prosciutto, i sandwich, la torta gelato Algida e un paio di palloncini a svolazzare.
Il giorno prima tornavamo con i miei genitori dalle ferie
In quegli anni, le vacanze estive per la mia famiglia coincidevano, per una parte, con i campi scuola di Presenza del Vangelo a Motta d’Affermo. Vivevamo una condizione metafisica, poiché soggiornavamo in un castello antico, dal quale si dominava il mare di Tusa e si vedevano, nelle giornate chiare, le isole Eolie.
A capeggiare la banda di famiglie con pargoli al seguito era un “pretino”, un uomo silenzioso, con negli occhi la luce delle persone buone.
Aveva il pregio di parlare a bassa voce, pur riuscendo a farsi ascoltare da tutti. Era in lui l’autorevolezza dei miti, che sanno dare lezioni tacendo e che non conoscono alzate di toni, sguardi burberi, maniere ingombranti.
Amavo lo scorrere di quei giorni, la sola presenza del pretino con gli occhi buoni mi dava serenità e quando la vacanza finiva mi portavo a casa la malinconia della felicità, quando la conservi come ricordo.
Il 19 luglio 1992 per tornare a Casteltermini dovevamo passare da Palermo per una commissione, ma all’ingresso della città restammo bloccati in una bolgia di auto in colonna, di sirene spiegate sotto la cappa poco propizia dell’afa estiva.
Capimmo che era successo qualcosa, ma era il tempo in cui “qualcosa” a Palermo capitava un giorno sí e l’altro pure. Tant’è che mio padre chiosò spontaneo: “Avranno ammazzato qualcuno, forse qualcuno di molto importante.”
Erano anni, quelli, in cui i bambini avevano chiaro, seppure a modo loro, il concetto di morto ammazzato, che si associava sempre a quello più difficoltoso di mafia.
Io ero una bimba degli anni ‘90 e non facevo più caso alle notizie che parlavano di “assassinii”, “stragi”, “regolamento di conti”. Era la normalità.
Restammo incolonnati per ore e io pensavo al mio compleanno, il giorno dopo, alla festicciola, ai regali che avrei scartato. Pensavo anche che era una seccatura che proprio quel giorno avessero ammazzato “uno importante”.
Tornammo a casa esausti e solo in quel momento, accendendo la tv, abbiamo avuto chiaro che erano stati uccisi il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di tutela.
La notizia non mi turbó e andai a dormire sfiancata dal caldo e dal viaggio senza fine. Il giorno dopo festeggiai i miei primi dodici anni e fui felice come lo sono i bambini quando spengono le candeline tra i battimani di parenti ed amici.
Ci sono voluti anni perché il dolore del 19 luglio diventasse anche mio. Perché quella vigilia di compleanno mi facesse riflettere sul senso della vita, sull’importanza dei miei giorni.
C’è una cosa che, più di qualsiasi altra, mi terrorizza: l’isolamento. La solitudine può essere una scelta, l’isolamento è una condanna.
Da bambina il dolore più grande arrivava quando qualcuno mi metteva da parte e, in un rigurgito inconsapevole della mia infanzia, soffro allo stesso modo semmai, nelle dinamiche imprevedibili dei bimbi, questa cosa capita a mio figlio.
Se c’è una punizione crudele verso il genere umano, per me è l’isolamento.
Penso a Paolo Borsellino che aveva, sotto i baffi, il sorriso da purosangue siculo. Amava il mare, la buona tavola, la sua terra. Avrà anche avuto i suoi insopportabili difetti, come tutti del resto. Con lui c’era una famiglia solida, che aveva tutti i numeri per ambire alla felicità. Ma la felicità fa capricci, risente della luna e delle maree. La felicità oggi ti strizza l’occhio e domani ti gira le spalle come se nulla fosse.
Il 19 luglio penso anche alle tante altre possibilità di essere felici che avevano Emanuela, “la bambina” del gruppo, Eddy Walter, Agostino, Claudio, Vincenzo. Quante trame di amore, di legami familiari, di sogni e di passioni c’erano dietro questi nomi?
Quali pozzi senza fondo esplorano ancora le persone che li amavano?
Penso al 19 luglio e mi viene in mente l’isolamento, che è la condanna peggiore.
Paolo e i suoi sono stati isolati ed ancora lo sono, nonostante i ricordi, le parate, le “cose pubbliche”.
Che peccato mortale è stato commesso contro di loro, ancora prima che il tritolo facesse quel che ha fatto?
Io, il 19 luglio del 1992, avevo quasi dodici anni e non capivo o forse mi ero comodo non capire.
Volevo concedermi la noncuranza che merita chi è ancora bambino.
Poi però ho compreso ed anche se non conoscevo alcuna delle vittime, le ho sentite amiche, parte del mio mondo personale. Subito dopo la laurea, trasferitami a Roma per un master, attaccai al muro vicino al mio letto un ritaglio di giornale con i ritratti dei due giudici nella loro posa più celebre. Non una foto di famiglia, non un mio vezzo, non un santino, ma Giovanni e Paolo, che erano l’ultima immagine da guardare prima di addormentarmi. Chissà quali moti c’erano dietro questa scelta?
Come mi disse una volta, in un’intervista, il giudice Fernando Asaro: “Se oggi io faccio il magistrato in questa maniera e tu puoi fare liberamente la giornalista, lo dobbiamo a loro, a Giovanni, a Paolo, ai loro uomini. Sono morti e siamo stati tutti sconfitti, ma dietro quelle macerie è stata costruita un’autostrada di libertà che allora non si poteva neppure immaginare. Oggi camminiamo a 120 all’ora, trent’anni fa era come andare sul carretto nella trazzera di campagna.”
Quando penso al 19 luglio, a questi eroi loro malgrado, mi viene da dentro un senso di affetto e di gratitudine, di quelli sinceri. Come se fossero miei amici, ancor più degli “stesso sangue”. Ed è lo stesso sentimento che provo per il “pretino” dagli occhi buoni, per l’uomo mite che mi rasserenava con un solo sguardo. Anche lui eroe suo malgrado, che di nome faceva Pino Puglisi.
Grazie per ogni cosa.