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Mariliana, la bimba che quarantadue anni fa scelse di rimanere in cielo

Nell’anniversario della tragedia di Punta Raisi un ricordo, un pensiero, una riflessione

C’è una storia di dolore, che ha attraversato il Natale tranquillo del paese in cui sono nata. Era il 1978, quarantadue anni fa come oggi. Casteltermini, così si dice, così tutti sanno, all’epoca era un paese fumigante di gioia di vivere, di grandi propositi e di capacità di sapere onorare le feste comandate. La gente si preparava al Natale. Era tempo di presepi viventi, novene cantate in tutte le chiese del paese, di case e strade illuminate. A Casteltermini quella sera doveva fare ritorno un cittadino che stava per diventare famoso. Era Enzo Di Pisa, il dentista, l’artista, “la mente”, così di lui si dice ancora dalle mie parti. Un ragazzo ambizioso, che insieme a suo cugino Michele (di cognome Guardí) se n’era infischiato dell’essere siciliano di scoglio ed aveva deciso di lanciare i suoi grandi sogni lontano lontano. Che al paesello un futuro lo aveva eccome (Enzo Di Pisa era nato in una famiglia borghese, era figlio del “dottore Di Pisa” e chi non conosceva la famiglia proprietaria di quella sala, chiamata con il loro nome, dove tutto il paese festeggiava i momenti felici. Ed ancora il laboratorio di pasticceria, uno dei più apprezzati di mezza Sicilia.) I Di Pisa, per dirla alla spicciolata, erano gente che contava. Ed Enzo avrebbe potuto dormire sonni tranquilli, in un paese che lo avrebbe riverito sempre. Eppure era arrivato a Roma senza certezze e lí stava coronando il sogno senza fine della Rai, la tv di Stato, braccio a braccio con il cugino Michele e notati niente popó di meno che da Antonello Falqui.

Enzo Di Pisa e un sogno che si coronava

Un sogno che stava diventando realtà. Intanto erano arrivate le vacanze di Natale ed Enzo voleva tornare nella sua Casteltermini, insieme con la moglie Letizia e con la piccola Mariliana. Al paesello non sono mai arrivati, perché il Dc 9 sul quale viaggiavano “si è fermato in cielo”. Così diceva la maestra a scuola, quando ogni anno, nel periodo della festa dei Morti, ci raccontavano della piccola Mariliana e ci faceva recitare una preghiera in suo ricordo. Ed io provavo a immaginarla quella piccola famiglia che, a due giorni dal Natale, chissà perché,  era stata trattenuta in cielo dal Padreterno. Ogni anno, il primo di novembre, andando al cimitero con i miei genitori, passavamo sempre davanti a quella tomba trasparente, che, manco a farlo apposta, pareva sospesa tra cielo terra. Spiccava la foto di una bimba sorridente ed occhialuta. Era Mariliana e io mi fermavo a osservarla per un tempo sicuramente lungo e non mi capacitavo del perché quella bimba dall’aria simpatica fosse rimasta in cielo, quando sulla terra era quasi Natale e le case di tutti gli altri bimbi sarebbero scoppiate di abbracci, regali e felicità. Di fianco c’era uno scrigno di vetro vuoto. Una volta azzardai e chiesi a mia nonna Stella il perché di quella teca trasparente senza nulla dentro. Lei, con la genuinità quasi infantile che era sua, mi raccontó per filo e per segno la verità dei fatti e chiosó con il dettaglio più doloroso: “La povera Letizia, la moglie del dottore Enzo, non l’hanno mai trovata.”

Ero bambina e scoprii la verità

Avró avuto sette o otto anni e quel giorno compresi che esistevano sogni interrotti, strade spaccate a metà e mamme “trasparenti”. Che anche questa è la vita che, con le sue onde alterne, riesce a scompaginare i piani di una famiglia felice, a cui pare non manchi nulla e di farlo a un passo esatto dal Natale. Come spesso fanno i bambini, scelsi di dimenticare, inconsapevole però che quel che vedi, senti, o ascolti durante l’infanzia, si deposita in un posto trasparente, a metà strada tra la mente e il cuore e lì rimane per sempre. Quel posto segreto ogni tanto apre la porta e quel ricordo addormentato si risveglia. Sarà stato per questo che ho da sempre paura di montare su un aereo. Ogni volta stringo i denti e conto i minuti uno ad uno. Ma questa è un’altra storia. Stamani un mio stimato e bravissimo collega, Enzo Mignosi, mi ha commossa, ricordando, con un post su Facebook, quella giornata lunga, che tanto lo stordì da sembrargli quasi un sogno.

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Il ricordo di Enzo Mignosi

«Vieni, vieni subito, è caduto un aereo a mare, a Punta Raisi. Corri. Devi correre». Dio solo sa come riuscii a non crollare di schianto per la violenza del colpo. Cominciai a tremare come una foglia, con le pupille sgranate, incapace di controllarmi. Gesù mio, ci saranno morti. Tanti morti. Che faccio, devo andare? Sì, certo che dovevo. Ero un cronista. I cronisti hanno l’obbligo di esserci sempre, soprattutto nelle situazioni più tragiche. E quella appena segnalata si annunciava come una grande, immane tragedia. Balbettai quattro parole: «Il tempo di vestirmi». Arrivai in un flash. «L’aereo, partito da Roma, è finito in acqua vicino alla costa. Ci sono alcuni superstiti, li hanno recuperati i pescatori che stavano al largo con le loro barche. Stanno arrivando al porto. Va e vedi quello che trovi». Le banchine erano vicinissime, meno di due chilometri. Volai, giunsi in quattro, cinque minuti, ma la grande area portuale recintata da una barriera metallica era deserta. Dentro c’erano soltanto un tizio seduto su una moto e un tale che pareva indossare una divisa da guardia giurata. Un silenzio tombale. Temetti, anzi sperai di aver capito male. Forse era tutto un maledetto equivoco. No, no. Non era un equivoco. Ero stato il primo ad arrivare. La quiete durò attimi. Il tempo di dare uno sguardo attorno e il porto si riempì in ogni angolo. Poi decine di ambulanze, della Croce Rossa, dei pompieri. E ancora, Giuliette della polizia, Alfette dell’Arma. Arrivarono, manco a dirlo, anche i casciari, gli avvoltoi delle pompe funebri che speravano in un bottino di cadaveri consistente piuttosto che in un carico di superstiti. Un caos mai visto. Le indiscrezioni sulla sciagura correvano di bocca in bocca. Era precipitato un Dc9 dell’Alitalia in fase di atterraggio, si chiamava Isola di Stromboli, aveva a bordo 129 passeggeri. Avrebbe dovuto toccare terra alle ore 00,38 e riprendere il volo verso Catania, mezz’ora di viaggio. I morti? Decine e decine. Di più. Oltre cento. Voci e domande si accavallavano e si rincorrevano senza trovare risposte. Notizie vere? Notizie false? E chi poteva confermare. Tutti a cercare di scorgere un puntino luminoso, di captare il borbottio di un motore, un accenno di indizio che lasciasse pensare all’avvicinamento delle imbarcazioni. Fu un’attesa snervante, che si protrasse per quasi due ore. Le prime luci in lontananza si avvistarono alle quattro del mattino. Calò il silenzio. Adesso si potevano distinguere le sagome delle barche che miravano le banchine. Eccole, erano due: prima una, poi un’altra. Quanto ci sarebbe voluto per l’attracco? In che condizioni erano i sopravvissuti? A brandelli per l’impatto violentissimo? Erano coscienti? E quanti erano? E quanti ne erano rimasti in fondo al mare, intrappolati nella carlinga? Le ambulanze si fecero strada fra la folla scomposta, accalcata dappertutto. Ora si leggevano le scritte sui fianchi dei pescherecci. Uno, il “Nuovo Pacifico” , stava sbarcando quindici superstiti. L’altro, il “Santa Rita Secondo”, ne aveva recuperati sei. Ecco le prime barelle. Gli scampati sembravano lucidi, consapevoli. Qualche livido sul volto, ma in buono stato. Inzuppati di mare e cherosene. Nessuno mostrava segni di sofferenza. Almeno, così pareva. Quando uno degli uomini della Croce Rossa in tuta bianca chiuse il portellone posteriore di un’ambulanza e gridò all’autista «ospedale civico», corsi a recuperare la mia macchina per mettermi sulla sua scia sperando di poter raccogliere qualche testimonianza, qualche dichiarazione. Ancora una volta la buona stella fu dalla mia parte. Appena giunto al pronto soccorso, scorsi una donna con addosso un accappatoio seduta dentro la guardiola della polizia, con il telefono in mano. Aveva i capelli biondo scuro ancora bagnati, i piedi scalzi. Si chiamava Fortunata Parlavecchio. Accanto a lei una ragazzina, la figlia, Anna, pure lei senza scarpe, fasciata da un telo bianco. Sarebbero dovute ripartire per Catania Fontanarossa, dove ad attenderle c’era Saro, marito e padre. Erano sopravvissute al disastro, stavano bene, non avevano bisogno di cure. Mi incollai al loro fianco e annotai parola per parola la drammatica telefonata a casa, nel cuore della notte. «Mamma, mamma, io sono, Fortunata. Siamo salve, io e Anna, è caduto l’aereo. Mamma, capisci, è caduto l’aereo. Siamo a Palermo, dov’è Saro, mi aspettava all’aeroporto, siamo salve tutte e due, diglielo, è un miracolo, mio Dio, diglielo che siamo salve. Papà lo sa? Saro è a casa? Siamo all’ospedale civico, stiamo bene. Ti prego mamma, chiama Saro, siamo salve, diglielo, diglielo altrimenti si ammazza. Non abbiamo niente. Niente, capisci? È un miracolo. Sta tranquilla, mamma, resto qui a Palermo, mandami Saro, diglielo che stiamo bene». Mi resi conto di avere roba forte nelle mani. L’istinto fu quello di precipitarmi in redazione ma riuscii a mantenere i nervi saldi. La donna parlava ancora, a raffica, con voce soffocata per l’emozione. Voleva sfogare tutta l’angoscia di quelle ore drammatiche. Parlava e tremava, Fortunata Parlavecchio. «Era stato un viaggio tranquillo. Mentre eravamo in fase di atterraggio ci siamo trovate sott’acqua senza sapere come. Ho cercato subito mia figlia ma non la trovavo. La chiamavo, ma lei non rispondeva. Ho affondato il braccio ed ho afferrato dei capelli. Ho capito subito che erano i suoi. Allora le ho preso la mano e l’ho stretta forte. È svenuta due volte, non l’ho mai lasciata. Non so come ho fatto, è stato un miracolo. Dio mio, che grazia straordinaria». Tornai al giornale alle cinque e mezzo. Scrissi di getto, sorretto da una fortissima tensione emotiva. Non c’era tempo per riflettere, non c’era tempo per pensare. Non c’era tempo per nulla. Bisognava solo scrivere. Dovevo correre a Terrasini, nel porticciolo affollato di imbarcazioni che andavano al largo e tornavano per poi ripartire e tornare ancora indietro. Cercavano superstiti. Cercavano cadaveri. Ma portavano frammenti di rottami, pezzi di abiti, scarpe, zaini. Ed io passavo da un punto all’altro della costa per capire dove si potesse annidare una notizia da scippare alla concorrenza. Ma l’atmosfera di lutto, la mestizia di quella tragica vigilia di Natale, la concitazione di quei momenti rendevano difficile anche solo farsi ascoltare dalla generosa folla di soccorritori, sospinta da un ineguagliabile senso di pietà umana. La notizia che avrebbe salvato la mia giornata di lavoro arrivò su una camionetta dei carabinieri. Un giovane appuntato, giunto da chissà dove, scese dal mezzo di servizio reggendo una borsa da donna. L’avevano recuperata a dieci miglia dalla costa che galleggiava. Benchè fosse chiusa da una cerniera era piena d’acqua. Dentro c’erano pochi effetti personali. Una carta di identità che odorava di mare, un rossetto, una spazzola per capelli. I miei occhi si fermarono su un biglietto della lotteria con una grande scritta nera sullo sfondo azzurro: tenta la fortuna. La fortuna. L’aveva inseguita, povera donna. Ed era finita negli abissi. Alle otto e mezzo della sera chiusi il mio secondo pezzo. Ero stremato eppure ancora sotto tensione. Feci il conto: avevo lavorato venti ore di fila. Venti. Ed ero ancora in piedi. Il 27 dicembre, alla ripresa del lavoro dopo il consueto stop natalizio, l’editore scese dal secondo piano e fece il giro della redazione accompagnato dal direttore. Strinse la mano ad ognuno dei giornalisti. La strinse anche a me. Fui avvolto da una vampata, l’onda calda della gratificazione. Era la mia prima volta. Sette mesi dopo mi capitò sott’occhio un dispaccio dell’Ansa battuto dalla redazione di Catania. Poche righe per riferire che una donna di 47 anni, Fortunata Parlavecchio, era morta suicida. Nessuna spiegazione, nessun dettaglio. Solo un veloce riferimento alla tragedia di Punta Raisi.>>

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Ed anche se è festa è giusto ricordare quel dolore

Ed oggi, quando sono passati quarantadue anni e siamo a un passo esatto dal Natale, da quel momento fumoso in cui la felicità deve avere facoltà di esistere, si deve comunque ricordare quel giorno a Punta Raisi. Quel paesino in montagna spezzato a metà, perché nella provincia i sentimenti si vivono come dentro una gigantesca cassa di risonanza. Sia quando si tratta di felicità sia quando c’è di mezzo il dolore. Ho chiesto ad Enzo Mignosi di condividere queste righe  strazianti e bellissime. Lui quel giorno ebbe l’onere senza fine di raccogliere il dolore e di doverne tenere un pezzo per sé. Ricordo Mariliana, che era bimba quando io non ero ancora nata e voglio credere a quel che mi diceva la maestra. Che quella volta, per festeggiare il Natale, “Enzo, Letizia e Mariliana rimasero in cielo e lí restarono per sempre.” È Natale e voglio credere che sia stato davvero così.

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