“L’anniversario” è uno dei libri che ha fatto più discutere negli ultimi tempi. Ha vinto lo Strega e lo ha scritto Andrea Bajani, autore stimato e professore di scrittura in una blasonata università del Texas. Con la maestria di un’ottima penna, Bajani racconta una storia al limite, che lascia incredulo e finanche turbato il lettore. Eppure è tutto vero vero: i personaggi, la trama, il prologo e l’epilogo. Di questo libro e del distacco che racconta abbiamo parlato con la dottoressa Alba Calderone, psichiatra.

Dottoressa, in questo libro l’autore “celebra” i dieci anni dalla rottura con la famiglia di origine. Si può festeggiare, al pari di un gioioso anniversario, uno strappo umano e sentimentale di tale portata?
L’interruzione di un forte legame sentimentale, sia familiare che d’amicizia o d’amore, può rappresentare una sconfitta, una perdita ma anche una rinascita. Nel caso di un legame familiare, il rapporto che coinvolge le figure genitoriali e il resto della famiglia è sicuramente più profondo e viscerale. Purtroppo spesso proprio per la forza di questo legame, che trova le radici nell’accompagnamento alla crescita e alla formazione di un individuo, un eventuale strappo è ancora più doloroso. In questo caso tuttavia non direi che lo scrittore celebra in senso ‘positivo’ l’allontanamento dalla famiglia, piuttosto come una sorta di ‘liberazione’ da un giogo, da sentimenti sopiti di oppressione, che non riusciva più a sostenere. È un affrancarsi da una situazione cui si era adeguato a caro prezzo.
Ritiene plausibile chiudere davvero e per sempre con la famiglia di origine?
Dipende da caso a caso. Come dicevo prima, il legame con la famiglia d’origine è estremamente profondo e radicato nella natura umana. Questo legame ha lo scopo di proteggere ma allo stesso tempo di formare l’individuo garantendo un equilibro con l’esterno ma anche con le tensioni interne, garantendo la ‘sopravvivenza’ fisica e soprattutto emotiva di una persona . Su
questo legame si basano le principali teorie dell’attaccamento. Tuttavia in situazioni di famiglie disfunzionali o abusanti questa
funzione non viene esercitata e il distacco può rappresentare davvero una rinascita, un voltare pagina, l’inizio di una vita diversa.
L’allontanamento difficilmente è indolore ma è lo scotto da pagare per uscire da alcune situazioni.
Volendo fare un analisi psichiatrica di situazioni talmente al limite?
Dal punto di vista psichiatrico direi ancora una volta che dipende da caso a caso. Nella situazione descritta dallo scrittore Bajani, il padre sicuramente era una persona instabile, che aveva addirittura manifestato intenti suicidari. Instabile era a sua volta la madre, che ad un certo punto della vita era diventata alcolista. Persone dotate di una spiccata impulsività, tendenzialmente irascibili ma allo stesso tempo deboli e in qualche modo ‘sconfitte’ dalla vita a causa del loro stesso agire. Persone decisamente da curare, purtroppo tuttavia la mancata consapevolezza della propria psicopatologia ha alimentato un circolo vizioso distruttivo di frustrazione e insoddisfazione che si è poi completamente riversato sulla famiglia.
Che effetti positivi e negativi ha chiudere i conti con una famiglia tossica?
La chiusura con la famiglia d’origine, anche con la peggiore famiglia possibile, non è mai indolore. Secondo Bowlby esiste una forte correlazione causale tra l’esperienze vissute con i genitori e la futura capacità di costruire legami affettivi. Le persone con famiglie funzionali, sebbene la famiglia ‘perfetta’ non esista, si trovano avvantaggiati da vissuti interni di sicurezza nel formare abilità e legami affettivi bilanciati. Nelle famiglie abusanti, se i figli hanno una personalità solida, nonostante la situazione in cui sono vissuti, piano piano riescono a ricostruire se stessi e raggiungere un nuovo equilibrio. Nelle personalità fragili questo può non accadere e ridefinirsi come persone risulta più difficile che sottomettersi agli stessi schemi. Il rischio, in questi casi, è quello di perdersi e prendere strade anche peggiori. Ricordo anni fa di aver letto un libro scritto da un avvocato su alcune cause riguardanti minori che aveva gestito. Nel libro menziona una battaglia che fece per far togliere i bambini ad una famiglia disfunzionale con genitori tossicodipendenti, sebbene non privi d’affetto nei confronti dei loro figli. Nel libro riferisce con rammarico di aver rincontrato quei bambini, ormai adulti, e aver constatato che purtroppo si erano emotivamente perduti e avevano preso cattive strade. L’allontanamento non solo non li aveva salvati ma probabilmente li aveva spiazzati emotivamente. L’autore si chiede inevitabilmente cosa sarebbe successo se fossero rimasti con la famiglia? Forse le cose per loro sarebbero andate meglio.
Che risposte dare a eventuali nipoti, che domanderanno il perché di certe condizioni?
Questa è una domanda complessa. Ritengo che una persona, che si distacca dalla famiglia per svariate ragioni, non abbia tuttavia il diritto di allontanare anche i nipoti, diritto peraltro garantito dalla legge. A meno che ovviamente non si tratti di situazioni di gravità estrema (pensiamo ad esempio a casi di violenza o di molestie) in cui è lecito allontanare definitivamente i bambini. Certamente tutti noi abbiamo notato come la severità dei nostri genitori nei nostri confronti è decisamente attenuata nei confronti dei nipoti, dei quali i nonni si ergono spesso a paladini difensori. Questo per dire che un rapporto alterato malato o incompreso di genitori con figli non lo sarà necessariamente anche con i nipoti. I tempi sono diversi e soprattutto i ruoli sono diversi.
Esistono scelte meno drastiche rispetto a quella di Bajani, anche dentro famiglie altamente disfuzionali?
Decisamente si. Nel finale del libro l’autore rivedendo il viso della madre nel proprio figlio conclude con la frase ‘e non fa bene e non fa male’. Il protagonista del romanzo allenta il giogo per poter respirare, tuttavia il nodo non è del tutto sciolto. Si è distaccato, anche per via dell’ansia e tutte le forme di somatizzazione che gli provocava la situazione ma, a mio avviso, non ha voltato pagina ed è rimasto in una sorta di limbo ‘indolore’. Non gioisce del distacco ma ha semplicemente compiuto un atto necessario alla sua sopravvivenza. Ma sopravvivere non equivale a vivere. Avrebbero dovuto tentare la via del dialogo e della cura per quanto difficoltosa e complessa. Un percorso difficile, tortuoso e doloroso ma che avrebbe forse dato un po’ di serenità all’animo inquieto del padre e all’appiattimento e all’inutile resa della madre col risultato di un maggior benessere psicologico per i figli nonché per l’intera famiglia.