Abbiamo perso l’umanità?
È la domanda a sangue freddo, dopo il clamore mediatico per la morte di Paolo Mendico. Il quindicenne di Latina si è suicidato alla vigilia del primo giorno di scuola. C’è un’inchiesta giudiziaria, che dovrà fare luce su eventuali responsabilità. Ci sono i genitori del ragazzino, che parlano di bullismo e di istigazione al suicidio. C’è lo sgomento di quella parte d’opinione pubblica che si domanda perché sia accaduto. Anzi, perché episodi del genere si ripetano con una frequenza, che inizia a fare paura.
Paolo, secondo i familiari sarebbe stato vessato e isolato e, sempre secondo i parenti, chi doveva accorgersi non è riuscito a capire in tempo. Si attendono gli esiti di un’ispezione ministeriale per sospetti atti di bullismo non contrastati a dovere. Da par loro, i genitori dei compagni del quattordicenne chiedono che questi vengano tutelati da psicologi. La preside dell’istituto Pacinotti continua a confermare di aver fatto il suo dovere.
Quindi, cosa è accaduto all’anima di un ragazzo, che aveva tutta la vita davanti e che ha scelto di farla finita all’alba del primo giorno di scuola?
Perché ai funerali c’era solo una delle famiglie della scuola?
Dove sono le cause profonde di una vita spezzata così in fretta e perché pare più necessario scaricare il barile, invece che solidarizzare per evitare che succeda di nuovo?
Ne abbiamo parlato con il professore Daniele La Barbera, psichiatra e docente di Psichiatria all’Università degli Studi di Palermo.

Professore La Barbera, parliamo anzitutto di un fenomeno che si allarga: bullismo, che porterebbe ad atti tragici. Cosa sta succedendo?
La società contemporanea sta andando incontro a tre aspetti problematici: il calo della dimensione etica, empatica e cognitiva. Questo ha delle conseguenze forti nel vissuto quotidiano: si discrimina meno a livello morale, affettivo e relazionale. Facciamo la somma del tutto ed ecco venire fuori il bullismo, l’ignavia, la scarsa attenzione verso l’altro e la facilità di compiere atti ignobili che possono ferire gravemente l’altro. Non penso che i ragazzini di oggi siano consapevoli di attivare pensieri estremi verso il compagno più fragile, ritengo più plausibile una loro banalizzazione del bene e del male. Non si dà il giusto valore a parole e ad azioni, ci si lascia prendere dalla tendenza del gruppo e non si comprendono le conseguenze drammatiche che possono avere taluni atteggiamenti. Ci scappa il morto innocente, perché di questo si tratta e ricordiamoci che un quattordicenne se arriva a suicidarsi avrà una forte sofferenza interiore.
La dimensione digitale ha la sua parte di responsabilità in tutto questo?
Assolutamente sì, poiché ogni cosa, oggi, viene viene amplificata dalla dimensione narcisistica legata all’uso dei social. Nel mondo virtuale è lecito ingigantire e vantarsi di azioni deprecabili, delle quali nella vita reale ci si dovrebbe vergognare. Sui social invece si è fieri e orgogliosi dello sfottò al compagno fragile, del gosthing, cioè del rendere invisibile una persona del gruppo classe o della comitiva di amici. In rete sembra tutto un gioco, quindi condivido il pensiero e cerco like. La “banalità” della rete diventa viralità e prende piede nella vita reale, con conseguenze che possono essere deflagranti e peggiorative, per via della IA a cui ormai i giovani stanno iniziando a delegare tantissimo del loro quotidiano.
Si rischia una deriva? Che responsabiltà ha la famiglia?
Il suicidio di un ragazzino, posto che dovranno esserne accertate le cause e ci auguriamo che le autorità competenti facciano luce in fretta, è sempre sintomo di un fallimento e di una deriva umana. La famiglia, intesa come istituzione sociale primaria, deve interrogarsi sull’accaduto. Il ruolo dei genitori è quello di connettersi emotivamente con i propri figli, così da capirne i bisogni e l’agito. Oggigiorno però questa connessione è carente. I genitori sono distratti, delegano le loro funzioni alle tate digitali e non fanno caso alla vita virtuale dei loro figli, che può nascondere tante insidie. Non solo, i genitori, non tutti per carità, hanno difficoltà a definire una linea educativa. Viviamo l’epoca del compiacimento dei figli, che vanno premiati, protetti e coccolati, sempre. Temiamo che qualcuno possa rimproverarli e renderli insicuri, quindi no ai richiami e guai se qualcuno si permette di farlo al nostro posto, gli insegnanti in primis. Questo però non concilia l’autostima buona, quanto il narcisismo delle nuove generazioni. Rischiamo di crescere bimbi che saranno adulti egoisti, insensibili e deresponsabilizzati. Riflettiamoci, finché siamo in tempo.
Accennava al ruolo della scuola, che nel caso del giovane Mendico ha inizialmente declinato le responsabilità
Credo che in questa vicenda, l’istituto scolastico abbia privilegiato la difesa di ufficio della propria struttura, invece che entrare in sintonia con la perdita di un figlio. Qualunque fosse stata la ragione, prevale la presa di distanza, un atteggiamento che privilegia lo svincolarsi dalla responsabilità, invece che mostrare vicinanza affettiva. Non esistono istituzioni, gruppi e insegnanti perfetti. Va detto però che oggi la scuola vive un momento difficilissimo e si inserisce in una società che fa acqua da tutte le parti. Manca di un welfare pensato per creare una buona scuola, così da offrire agli insegnanti strumenti adeguati di contrasto di fenomeni come il bullismo. Ciò non giustifica eventuali mancanze d’attenzione, nel merito delle quali non possiamo entrare, non conoscendo a fondo i fatti. Resta chiaro però che oggi non viene più riconosciuta al corpo docente l’autorità di un tempo, questo a partire dalle famiglie. Ci vorrebbero maggiori dialogo e fiducia, insieme alla consapevolezza del lavorare insieme a vantaggio dei nostri figli. Posto che, nella drammatica vicenda in esame, l’eventuale presa di distanza non deve equivalere con il negare la vicinanza alla famiglia, che ha subito una perdita gravissima.
Vicinanza alla famiglia, che non sarebbe stata espressa neppure dai compagni e dai genitori. Di cosa è spia tutto ciò?
Questo è un fatto molto inquietante, che ci invita a riflettere: abbiamo perso il senso dell’essere comunità e di solidarizzare anche in un momento estremo. Questo è un sintomo di quanto si stia perdendo il senso delle competenze umane essenziali. Viviamo un fenomeno tragico: la deumanizzazione, ossia la perdita di quelle capacità basilari che fanno provare compassione e vicinanza verso chi sta soffrendo per una tragedia simile.
Questi eventi micro-sociali sono la spia e il riflesso di un fenomeno più generale. Se non sono vicino a chi mi è più prossimo, come posso prendere a cuore cause più grandi? Riflettiamoci, perché il rischio è quello di orientare la società verso l’egoismo e la mancata connessione emotiva con l’altro. Sarebbe una deriva irrecuperabile.
Si può e si deve fare ancora qualcosa…
Certamente, partendo dalla motivazione personale: dobbiamo credere che è possibile cambiare le cose, partendo dal nucleo familiare. Educhiamo i nostri figli a immedesimarsi nei bisogni dell’altro. Non pensiamoli come “i campioni del mondo”, quanto come individui unici, con risorse e limiti, che devono entrare in empatia con chi gli sta vicino, cercando di comprenderlo ed evitando di ferirlo. Tutto ciò è possibile intanto se dialoghiamo con i nostri figli, se passiamo del tempo con loro, se inculchiamo loro l’abitudine all’impegno e al rispetto delle regole.
Non possiamo progredire tecnologicamente e regredire umanamente.
Servono piani pedagogici che si adattino a questo momento di crisi.
È necessario che la famiglia collabori con la scuola, che si metta in una condizione dialettica rispetto all’eventuale rimprovero, alla nota sul registro, al cattivo voto. Oggi il rischio è quello di una pedagogia solo difensiva, perché l’istituzione scolastica teme le conseguenze dei piani educativi classici. Dobbiamo superare questo guado, certi che tutti possiamo sbagliare, ma consapevoli che la collaborazione tra istituzioni, a partire da quelle familiari, sia la strada per migliore il futuro sociale. Tutti dobbiamo fare qualcosa perché non si verifichino altri episodi come quello del povero Paolo. Tutti dobbiamo sentirci genitori colpiti da un simile dramma.