Un anno fa come oggi il Coronavirus entrava nelle nostre vite. E le cambiava. Dalla base fino all’altezza. Un anno fa questo giornale veniva investito, senza volerlo, da un’occorrenza del tutto nuova. Abbiamo sempre avuto un taglio medico, poiché sin dai nostri inizi, abbiamo dato voce agli esperti ed anzi ne abbiamo coinvolti diversi nel nostro team redazionale.
La pandemia però, giorno dopo giorno, ci ha condotti verso un tipo di informazione che proprio da alcuni dei nostri esperti è stata riconosciuta come scientifica. Abbiamo iniziato a occuparci di Covid nel quotidiano, centrando il focus sul nostro territorio, la Sicilia, ma allargando lo sguardo anche a tutto quanto accadeva in ambito nazionale. Abbiamo compreso che tentare di informare bene i lettori fosse un dovere anzitutto e che occorreva compierlo per fare chiarezza, laddove tutto pareva una nebulosa. Ricordiamo le prime settimane, quando il panico aveva la meglio su tutto il resto. Il male invisibile era arrivato in Italia e quel terrore che pareva lontanissimo, roba di un posto all’altro lato del mondo, veniva a bussarci alla porta e lo faceva con prepotenza. I casi erano ancora sparuti, eppure l’istinto di rintanarci nei nostri piccoli e sicuri nidi è stato per molti il primo ed anche il primordiale modo di proteggersi. Poi i numeri hanno preso la rincorsa e una salita senza pari. Eravamo ancora confusi: cosa sarebbe stato di noi? Ci focalizzavamo su Codogno, questo paesino che chissà com’era: grande, piccolo, ameno o uno come ce ne sono tanti. Il male aveva deciso di stabilirsi lì e quel sentire per la prima volta parlare di “zona rossa”, ci illudeva che forse trincerando un luogo, il resto d’Italia sarebbe rimasto incolume. Macché. Cosa ne potevamo sapere che il Covid in Italia circolava già da mesi. Che, soprattutto al nord, i casi di polmonite “atipica” fioccavano come mai era successo negli anni precedenti. Che anche nei più piccoli vi era stato un incremento di patologie respiratorie, liquidate come conseguenze dei virus stagionali?
Cosa potevamo saperne che da quel 21 febbraio, la data in cui al Tg del primo mattino diedero la notizia che nessuno voleva sentire, le cose sarebbero cambiate come mai era successo nella storia recente?
Iniziammo a scaldare i forni, a fare impasti e a cantare alle finestre. Se il male non ci aveva toccato da vicino, ammettiamo che per qualcuno quelle prime settimane di lockdown furono quasi una vacanza. Si stava a casa, ci godevamo la famiglia e facevamo cose che non eravamo abituati a fare.
Pensavamo alla fantomatica prima cosa da fare un volta fuori. Come se quel “una volta fuori” sarebbe capitato il mese dopo, mal che andasse quello dopo ancora.
E si stava lì a fare le dirette social tra amici: “Tu cosa farai quando tutto ciò sarà finito?”
“Andrò sicuramente in Groelandia.”
Diceva qualcuno.
“Io invece andrò a trovare la mia amica del cuore in Spagna. Ce lo promettiamo da anni, ma è mancato il tempo, sono mancati i soldi o forse è mancata la volontà.”
Quando qualche apocalittico azzardava che occorreva pazientare sei mesi, lo guardavamo di traverso. Gli davamo del pessimista.
Ci concentravamo su quella prima cosa da fare e quella prima cosa sarebbe dovuta capitare a breve, al massimo in estate, perché una vita di restrizioni non la si può reggere a lungo.
Così non è stato. É passato un anno, che ha contato morti (troppi), feriti (altrettanti) e poi le vittime di riflesso: chi, morendo di Covid o di chissà cos’altro, è “partito” senza un abbraccio o peggio è andato via senza uno sguardo amico. Chi si è ammalato di depressione e sono stati in tanti. Chi ha trascurato quello screening per paura di infettarsi una volta in ospedale e oggi si ritrova a combattere una battaglia difficile. Chi ha imparato a convivere con la solitudine: gli anziani nelle case di riposo, che da mesi non possono più ricevere le visite dei loro cari. I bimbi, che vivono una condizione singolare: possono andare a scuola, ma non devono abbracciarsi, non devono festeggiare i compleanni per come erano abituati a fare, non possono andare in palestra o in ludoteca. Tutte cose a cui si può rinunciare, ma vallo a spiegare al tempo dell’infanzia che questo e quello non si fa? Nell’infanzia ci è concesso di volere tutto e insistere per ottenerlo. L’infanzia è l’unico momento della vita in cui puoi non tenere in conto il concetto di pazienza. E invece il Covid ha scompaginato anche queste regole.
Nel frattempo noi abbiamo scritto e scritto ancora.
Ci è successo di dare per primi delle notizie importanti. Di farlo verificandole due, dieci, venti volte e poi di pubblicarle: perché conoscere è importante. Proprio conoscendo le dinamiche di questa malattia, si sta arrivando a fare tante conquiste per combatterla. Anche partendo dal basso.
Abbiamo avuto la fiducia di medici in prima linea nella lotta al Covid, che ci hanno concesso il loro tempo, quel po’ che rimaneva e rimane loro di giornate piene di lavoro.
Quante interviste fatte ai medici mentre questi tornavano a casa a tarda sera, con la linea che andava e tornava, perché magari nel tragitto c’era una galleria.
Quante confidenze, timori e speranze, raccolte tra un’intervista e un’altra. Perché i medici sono anche uomini, non dimentichiamolo.
Quante lacrime versate per via di quel famigerato effetto Burnout.
Ricordo ancora quella mattina di sabato 22 febbraio. Chiamo il dottore Tullio Prestileo, un bravissimo infettivologo palermitano. Ci eravamo conosciuti qualche mese prima a un congresso a Favignana. Mi era piaciuto il suo modo di argomentare, la sua empatia, la capacità comunicativa. Ci eravamo scambiati i numeri di telefono con la promessa di un approfondimento sulle nuove terapie per la cura dell’Aids. Ci risentivamo per parlare di Covid. Ricordo ancora il dottore Prestileo che commentava scoraggiato quei dati, che raddoppiavano e triplicavano senza criterio. Ricordo il suo timore che la situazione sarebbe potuta sfuggire di mano.
Il resto è storia. A tema Covid abbiamo pubblicato in questo giornale quasi 1000 articoli, intervistato una cinquantina di esperti (su tutti i fronti, poiché il Covid non ha risparmiato alcun ramo della medicina), in dodici mesi abbiamo ricevuto quasi 3 milioni di visite, un numero che mai avremmo immaginato, un dato che ci ha spronato a fare ancora e ancora meglio o quantomeno a essere seri e costanti nel rapporto con i lettori.
Abbiamo ricevuto critiche, sollecitazioni, apprezzamenti. Soprattutto abbiamo avuto la fiducia dei medici, dei paramedici, ma anche dei pazienti, perché abbiamo raccontato molte loro storie. In quanti hanno messo nome e faccia per testimoniare la drammaticità di questa malattia? Sono stati tanti. Chi ha raccontato di sintomi devastanti, chi di contagi avvenuti “senza un perché”, chi ha testimoniato tra queste pagine drammatiche vicende di cyberbullismo sol perché si era positivi al virus. Su tutti cito la storia del signor Cunsolo da Saronno. Abbiamo scritto di lui per bocca della figlia, che sperava e pregava che suo padre si salvasse, mentre era in coma farmacologico e intubato. Abbiamo sperato di scrivere della sua guarigione ed abbiamo realizzato questo desiderio.
Scriviamo ancora e come tutti speriamo di poter scrivere la parola fine pandemia. Confidiamo nel vaccino poiché crediamo nella scienza. Senza se e senza ma. In occasione di questo anniversario difficile, ma importante, abbiamo voluto realizzare uno speciale, grazie al contributo prezioso di una serie di medici: il professore Fabrizio Pregliasco, virologo e primario al San Donato e docente all’Università di Milano, il professore Antonio Cascio, infettivologo e primario al Policlinico di Palermo e docente alla facoltà di Medicina dell’ateneo palermitano, il professore Marcello Vitaliti, pediatra e primario all’Utin dell’Arnas Civico di Palermo, la dottoressa Maria Rosa D’Anna, ginecologa e primario al reparto Materno-Infantile del Buccheri La Ferla di Palermo, il dottore Marco Battaglia, pneumologo al centro Covid dell’ospedale Cervello di Palermo.
A tutti loro, agli altri medici protagonisti in questi dodici mesi di interviste e contributi e a quanti hanno sostenuto la nostra informazione in questi difficili dodici mesi diciamo grazie. Grazie soprattutto alla fiducia dei nostri lettori, che ci spronano a fare sempre meglio. Un giornale non ha ragione d’essere senza qualcuno che lo legga.
Grazie e ad maiora!