Conosco Sabrina Spoto da molto prima che diventasse un ottimo medico ed un’affermata cardiologa. Percorrevamo insieme, ogni mattina, un tragitto in autobus di quaranta minuti. Era il tempo, che separava il nostro paesello sui colli agrigentini (Casteltermini) da Agrigento. Frequentavamo il “glorioso” classico Empedocle ed avevamo in comune almeno un paio di cose, a partire dall’austero corso D (storicamente declinato solo al femminile – con delle eccezioni ad anni alterni). Quei quaranta minuti erano un vivaio di confronti e chiacchiere (il fatto che ci si incontrasse alle sette meno un quarto del mattino non costituiva un deterrente per le nostre infinite elucubrazioni su Socrate, Ariosto e lo Ius prime noctis). Attenzione, non eravamo tanto secchione e noiosette da parlare solo di studio. Tutt’altro. Su quell’autobus parlavamo anche di strafighi del cinema, di Vasco e Pino Daniele, di diete (perenni), di meravigliosi cazzeggi no sense. Soprattutto parlavamo dei nostri sogni, sui quali avevamo le idee assolutamente chiare. Io volevo fare la giornalista e Sabrina la cardiologa pediatra. Ogni volta che si entrava in argomento, in Sabrina si accendeva una fiammella, che, dalle labbra, le arrivava fino agli occhi in un incendio bonario, che la illuminava del tutto. Sabrina, al tempo della nostra fanciullezza (premesso che siamo ancora due “giovinastre”?), era positivamente ambiziosa, acuta, volenterosa, dotata vuoi dell’intelligenza, che serve per apprendere dai libri, vuoi di quella, assai più rara, che aiuta a comprendere la vita. Pare ieri la nostra ultima chiacchierata in autobus ed invece è passata una quota di anni, che non mi va di contare. Per varie ragioni, la vita ci ha divise (studio, specializzazioni, corsi, stage e via discorrendo). Ci siamo riviste per caso tra i corridoi dell’ospedale Di Cristina “Dei bambini” di Palermo (io cercavo un neurologo da intervistare e chiesi, distratta, a lei il corridoio da imboccare). È stato bello ritrovare il filo di un discorso interrotto un bel po’ di anni fa. Ci raccontiamo in pochi minuti dei nostri “nel frattempo” in cui siamo diventate mogli, madri, facendo il lavoro che sognavamo (a suon di grandi sacrifici, di ieri e di oggi). Sabrina è la bella ragazza bruna dei tempi dell’Empedocle. È diventata dirigente medico all’ospedale Arnas Civico di Palermo, nel reparto di Cardiologia pediatrica. Ha conseguito due master con il massimo dei voti e per i corridoi del reparto, i genitori dei suoi pazientini ne elogiano le virtù mediche e umane. Le abbiamo chiesto di fare una chiacchierata con le amiche di A tutta Mamma.
Sabrina, che donna sei?
Una vecchia pubblicità si concludeva con la frase:”Non importa che tu sia gazzella o leone, la mattina alzati e corri!”. Ebbene, devo confessarti che non mi sveglio ogni giorno con animo felino, ma il comandamento rimane comunque quello : correre! Le giornate sono strapiene di situazioni da conciliare: dai mille impegni di Irene, mia figlia (scuola, danza, inglese, compagni che riempiono la casa perché “iosonofigliaunicaemiannoiosennò”), per arrivare ai pasti, preparati sempre in anticipo perché odio i cibi pronti e sono un amante della buona cucina. Quindi i turni in ospedale. Citati per ultimi, ma non ultimi quanto a energie che assorbono: tutto trova un incastro perfetto. Riposare? Non fa per me!
Quando è nato il sogno di diventare cardiologa?
Il sogno nasce quando avevo solo 5 anni. Mia nonna, con la quale per anni ho coabitato , mi portava, al tempo, dalla dottoressa “del cuore”. Rimasi affascinata dal suo saper decifrare segni strani su una graziosa carta rosa a quadretti. Io che, a quel tempo, non sapevo neppure leggere le vocali, iniziai a fantasticare. Un giorno, al termine della consueta visita , ancora sulle scale dello studio dissi a mia nonna: “Da grande sarò come lei!”.
Mia nonna stimo’, in quel momento, un numero orientativo di anni di studio necessari (più di una ventina?)e ogni anno alla notizia della mia promozione esclamava : “Ecco ora mancano 21 anni…”
Finimmo di contare il giorno della mia specializzazione, quando, tra gli auguri del parentato, lei si fece spazio per sussurrarmi in un orecchio: “Ecco ora abbiamo finito di contare”.
Curare i bimbi con problemi al cuore: Difficile, anche emotivamente?
Devo dirti che è stato esattamente il contrario: mi mancava il coraggio per essere il medico della “terza età”. Per rassegnarmi all’ idea della fine della vita, per circondarmi di gente che, per legge di natura, si lasciava andar via.
I bambini rappresentano la vita che esplode, che insiste. Loro sono la gioia, la semplicità, la fiducia. Rappresentano quella vita, che sa imporsi. Sempre e comunque, che sa disegnare il futuro. Sono i piccoli pazienti che mi danno speranza e mi insegnano a crederci ancora e ancora!
Sei medico ma anche mamma. Come concili le due cose?
Una mamma medico è una mamma che, vivendo quotidiani drammi, per forza di cose non si impietosisce con facilità di fronte a ginocchia sbucciate o linee sparse di febbre. La mia bambina, Irene, di fronte ai suoi malanni stagionali, alla domanda: “Come stai?”.
Risponde serafica:”Non sono grave: presto guarirò!”
Parlaci del tuo tempo libero…
Il tempo libero, come ti anticipavo, è davvero poco. La più grande delle mie passioni ha trovato uno spazio suo che riempie tutto, “rubando” poco al resto: ho l’ intera discografia di Vasco, conservata nella mia automobile. La ascolto da almeno 25 anni. Ogni mattina, mentre vado in ospedale, per distrarre la mente da tutto ciò che ci sarà da affrontare e organizzare o anche quando torno dal turno di notte, vuoi per tenermi sveglia vuoi per ricordarmi che, in fondo, è “tutto un equilibrio sopra la follia”, Vasco è la mia colonna sonora.
Amo tanto la lettura. Tra i miei preferiti in assoluto c’è Paolo Coelho. Potrei associare ogni suo libro ad un periodo della mia vita. Anche per questo lo considero il “mio scrittore”.
Raccontaci un episodio che ti vede mamma ed anche medico
Ricoverai una paziente del Camerun. Soffriva di una gravissima cardiopatia mai diagnosticata fino ad allora. Si chiamava Frida ed aveva vissuto nel suo paese lontana da ciò ne noi chiamiamo civiltà. Frida scopriva ogni giorno con noi oggetti di vita comune fino a quel momento sconosciuti. Raccontai di Frida alla mia piccola Irene. Lei decise di investire
i suoi risparmi in un gioco: un puzzle.
Ai tempi li adorava. Lo scelse con cura: era il più bello tra quelli che possedeva. Fece un pacchetto con le sue manine, lo ornò con un bel disegno che raffigurava un sole. Era per Frida!
Le regalò un sorriso sincero. Ogni tanto, in giornate comuni, senza un perché si chiede: “Chissà come sta Frida?”.
Il tuo sogno nel cassetto?
Sono sincera, al momento non me ne viene in mente nessuno. Forse perché le cose che più desideravo le ho realizzate tutte.
Grazie di cuore Sabrina e ad maiora!