Enzo Biagi era il giornalista preferito di mia nonna Tatà. Lei, che aveva frequentato scuola solo fino alla seconda elementare, aveva però una passione sfrenata per l’informazione. Comprava almeno tre riviste a settimana (Gente, Famiglia Cristiana ed Epoca) e guardava decine, e non esagero, di tg al giorno. Per Enzo Biagi provava stima, anzi venerazione. “Se lo dice Biagi, allora è verità.”
Lei, che aveva passato la vita a crescere prima i figli e poi nipoti, faceva, inconsapevolmente, una riflessione grande, che definiva l’alfa e l’omega di un buon giornalista.
Deve dire la verità, saperla raccontare ed essere credibile. Ed Enzo Biagi era questo. Mia nonna mi contagió l’amore per la narrativitá e trasversalmente la stima verso Biagi, che per me aveva il piglio rassicurante di uno di famiglia. La sua faccia calma, identica a quella di un qualsiasi nonno di provincia, non lasciava immaginare le tante intemperie, che avevano attraversato la sua vita. Le conobbi molto tempo dopo, leggendo i suoi libri per dovere e per passione.
A Biagi il merito di avermi aiutata a superare un esame importante
A Biagi diedi anche parte del merito quando superai l’esame di idoneità professionale a Roma. Una prova scivolosa, durante la quale inciampai più volte, rischiando di non farcela. Dovevo però spuntarla al primo colpo, perché a me le seconde chance non sono mai piaciute. Fu proprio quella tesina, dedicata al suo libro più romantico, Lettera d’amore a una ragazza di una volta, a salvarmi in corner.
Era il 26 marzo di un po’ di anni e io avevo scalato una cima poderosa. Perché in questa Italia bizzarra chi vuol fare il mio mestiere deve passare due soglie di sbarramento: prima diventi pubblicisti e poi forse, passando per l’imbuto stretto del praticantato, diventi professionista. Io lo desideravo con tutta me stessa e quando realizzai di avercela fatta, decisi di fare una cosa romantica e di dedicarla al maestro Enzo.
Pianaccio, il borgo del maestro
Visitare il borgo dove Biagi era nato. Pianaccio: una modesta somma di case, incastonate nell’altopiano tosco-emiliano. Nell’impresa mi accompagnò Alessandro. Volevo vedere la gente di Pianaccio, sentire parlare di Biagi da chi lo aveva conosciuto, che nei piccoli paesi, tra i parecchi vizi, c’è la virtù della compattezza. Arrivi nei borghi e se cerchi qualcuno, vivo o morto che sia, te lo fanno trovare. Il viaggio fu estenuante, attraversammo Pistoia e da lì ci inerpicammo tra la fila scomposta di paesini bolognesi. Lambimmo pure il comune di Zocca, dove è nato un certo Vasco, che ci racconta da decenni di una tale “Albachiara”. Finalmente arrivammo alla meta. Pianaccio non era per nulla come l’avevo immaginata. Un paesino sì piccolo, ma coronato da certi comfort, che mi hanno fatto riflettere che la Sicilia, ahinoi, sognerà per sempre di diventare italiana. Iniziammo a chiedere a destra e a manca e non c’era giovane, vecchio o adolescente che non avesse elogi per Biagi e per tutta la sua stirpe. Ci fu pure una tizia più audace, che mi allungò un bigliettino con numero di telefono e indirizzo di Bice, la figlia più celebre di Biagi. Al cimitero non potei andare, perchè una frana aveva bloccato gli accessi. Mi piacque però di respirare l’aria del borgo, di immaginare i luoghi piccini dove era nata una passione senza fine. Ho compreso che l’essere provinciali, talvolta, è un privilegio, che irrobustisce i sogni, ma allo stesso tempo aiuta a non volare troppo alto, quantomeno finchè il decollo non è stato completato. Ho immaginato Enzo e sua moglie Lucia innamorarsi, in quella festa di provincia di cui si parla nel libro. Ho tentato di rivedere quella maestrina con il golf a righe e una bella faccia pulita – come lui la descrive – a cui il maestro diede ogni cosa. Poi il racconto di quel matrimonio, celebrato nel bel mezzo del conflitto mondiale, festeggiato nel cuore dell’altopiano, con una torta fatta in casa e i battimani di una ventina di invitati. “Anche se intorno c’era la guerra, la povertà e la disperazione, quello fu il giorno più felice della mia vita.”
La felicità che nascondiamo
Questa frase, che letta d’un fiato può sembrare retorica, è una di quelle che amo di più, nella mia mente a volte la contemplo. Perché oggi per essere davvero felici è necessaria una somma di felicità. Altro che “inciampi” di guerra, povertà e disperazione. Oggi per far naufragare un proposito é sufficiente un accento fuor posto. Che di questi tempi la felicità è una ricerca, che se soddisfatta sopisce appena il languore di un attimo. E allora io immagino quel matrimonio, con tanto sole in faccia e un prato verde a far da scena. I vestiti cuciti in casa, i brindisi e il lambrusco suadente e traditore. Sorrido e penso che se oggi di maestri così non ne esistono più la colpa è di tante cose. Della monotonia intellettuale, dei compromessi, della mala politica, ma anche della felicità, che ce l’abbiamo in tasca ma poi la nascondiamo chissà dove fino a non trovarla più. Che un buon maestro deve anche sapere essere felice e Biagi la sua felicità, installata tra tante intemperie, amava raccontarla. Oggi sono dodici anni dalla morte di quel grande giornalista con la faccia di un qualsiasi nonno di provincia. Ho voluto dedicargli queste righe perché le merita. In questi tempi aridi, le merita eccome.
Una risposta
Tanti anni fa lessi, in un suo libro, del matrimonio di Biagi, rimasi impressionata e da allora ho sempre pensato che chi vuole davvero sposarsi, supera ogni remora e ostacolo. Mi è di esempio per tante cose. Chissà cos avrebbe detto dell’Italia di oggi.