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Quella madre e il suo bambino, che sono la madre e il bambino di noi tutti

Si scava sotto le macerie, le speranze sono flebili, il dolore copre tutte le cose

C’è il freddo di dicembre, che copre tutto il dolore del mondo. E quel dolore si è aggrovigliato intorno a Ravanusa, un paese dell’agrigentino che oggi, senza volerlo, è finito sulla bocca di tutta Italia.

“C’è freddo fuori e dentro”, mi scrive la mia collega Elvira Terranova, che come sempre è instancabile cronista da trincea. Le chiedo notizie, perché come tutti attendo che si sappia qualcosa di chi non si trova.

L’attesa dei dispersi può diventare peggio della notizia della morte.

In quel caso si scrive la parola fine, quando invece ancora non sai, vivi appeso nel limbo più tragico.

In quel mondo di mezzo c’è quella mamma e il suo pancione, ormai verso la fine del tempo di attesa.

Scrive Elvira Terranova in un articolo su Adnkronos che Selene avrebbe partorito tra pochi giorni.

Leggo e scendono giù due lacrime e poi due ancora ed altre tutte in fila

Sono mamma, so cosa vuol dire sentirsi un tempio dell’aspettare. Ricordo a memoria le cautele, quel pancione da proteggere a qualsiasi costo. Più diventava grande, più lo tenevo al riparo anche solo da un colpo di vento.

Ogni giorno dispenso consigli non richiesti a una cara amica incinta: “Non stancarti, riposa, occhio alle buche quando sei in auto, non stare troppo tempo in piedi.”

Ed allora immagino Selene, il suo pancione, la cura meticolosa che ne avrà avuto in questi mesi. Il nido già pronto, il calore del Natale ad avvolgere l’attesa della gioia più grande.

Leggo che l’esplosione l’avrebbe colta sul pianerottolo della casa dei suoceri. Pare stesse salutandoli. Sarebbe bastato un differente “sliding doors”, uscire da quella casa appena pochi minuti prima e il destino avrebbe preso una piega diversa.

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Faccio un sorriso amaro a conferma che la vita ha una fantasia superiore e differente dalla nostra.

Mi viene in mente un bel film di qualche anno fa, “Storia di una ladra di libri”.

C’era un’immagine dolce e crudele: la morte, che, leggera come piuma, bussava a porte inaspettate e non c’era modo di cambiare le strofe del suo canto triste.

Penso a quanto poco valgano le nostre cautele eccessive o al contrario un’audacia senza legittimità.

Capita che la vita scelga la sua strada e noi cosa possiamo fare?

Solo un inchino desolato ed accettare, certi che la sola lezione che resta è il sapere vivere bene il tempo che abbiamo a disposizione. Lasciar perdere le quisquilie, certi rancori scivolosi, le paranoie, i reticoli dentro i quali imprigioniamo la possibilità di essere felici.

Penso a Selene e come me ci staranno pensando in tanti. Sento i brividi percuotermi il cuore all’immagine di questa mamma a fine gravidanza, laggiù, sotto le macerie. Alle mani nude che la stanno cercando. Al dolore senza consolazione di chi la ama da sempre e di chi già amava quel bimbo non ancora nato.

Voglio sperare, fedele a quel diktat di quando ero bambina: la speranza è l’ultima a morire. Voglio credere a un miracolo, ‘chè è tempo di Natale e in questo tempo tutto può succedere. Forse siamo come dentro un film: piano sequenza, dissolvenza e in sovrimpressione la scritta “sei mesi dopo”, a rassicurarci che tutto è andato bene.

Poi torno in me e mi sconforto. Questa è una di quelle tragedie per le quali il dolore lo si sente giusto a un passo di distanza, ti toglie il fiato, mette in ginocchio una domenica del tempo più bello dell’anno, quando la tempesta di pioggia è passata, ma è arrivato qualcosa di peggio.

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Percepisco una sola certezza: quel bambino, che non ha ancora visto la luce, è figlio nostro ed anche la sua mamma è di noi tutti. Li stringiamo forte e lasciamo via le parole, che adesso non servono più. Ci basta il freddo di questo dicembre, che insieme al Natale che arriva, ha scelto di contenere anche tutto il dolore possibile.

 

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