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Quel viaggio a Loppiano che mi fece conoscere Chiara Lubich

Un racconto intimo, che parla di fede, di dubbio e di una grande donna

Esisterà probabilmente una fede senza intemperie, ma ho più in simpatia le fedi piccine. Quelle claudicanti. Che si mettono in discussione. Che  ambiscono al traguardo del volo, ma che non si crucciano di un alt  sul più bello. La mia fede cattolica la devo a nonna Tatà, che l’ha installata nel mio cuore con il potere genuino dell’affetto. Gesù per me era una questione semplice: andare di tanto in tanto a messa con mia nonna. Respirare a pieni polmoni dentro il suo elegante cappotto nero, che sapeva di pulito e ammirarla con quel basco di lana mohair, che sommava eleganza a quella che era in lei per natura. Gesù era ascoltare padre Bonanno, “padrepà”, che era un prete d’altri tempi e aveva il pregio del far sentire indispensabili i suoi parrocchiani. Uno per uno.

La fede era recitare la poesia davanti all’altare il giorno dell’Epifania, ed essere felice per l’applauso e per gli occhi di nonna, che non smettevo mai di puntare mentre ripetevo. Lei ricambiava orgogliosa e piena di un amore, che aveva capienza e latitudine difficili da spiegare.

Fede era conforto, sapere che si poteva stare tranquilli, perché tanto c’era qualcuno che ci pensava al posto tuo.

Con il passare degli anni, la mia fede non si è accontentata di crescere solo sui presupposti di una serie di calde abitudini dell’infanzia. Iniziò la mia personale dialettica del dubbio, del dove, del come e del perché e quel tesoretto bambino uscì sconfitto dalle domande. A interrogarlo c’erano, volitivi, i miei vent’anni. L’osservare che, nel mondo di fuori e in quello della mia piccola esistenza, le cose non sempre filavano secondo giustizia, misericordia e buona volontà. Liquidatoria, diedi un calcio a quel po’ di certezza che mi rimaneva, la sola volta che fui rimandata a un esame universitario, giusto a un passo dalla laurea. Chissà perché, ma me la presi giust’appunto con Dio, decidendo di litigarvi a morte. Capitolo chiuso. Avrei vissuto più leggera, pensai una volta fuori dall’edificio 15 di viale delle Scienze.

Eppure qualcosa mi mancava. Non partecipavo alla messa da chissà quando, dai tempi in cui, ancora ragazzina, i cliché dei chiesaroli, dei “battipetto” tout court, mi avevo delusa profondamente. Perché, mi duole ricordarlo, tra i colonnati delle ottime intenzioni cattoliche, ebbi modo di sperimentare ipocrisie piccine, classismi di provincia, voglia di vittoria o peggio di riscatto. In buona sostanza compresi che si poteva essere sufficientemente malevoli, anche se inerpicati sul più sacro dei pulpiti.

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Non ci pensai almeno per un po’. Finché in un autunno mite della mia gioventù, volli conoscere da vicino una realtà di cui un paio di care zie mi avevano parlato.

Loppiano, il Movimento dei Focolari e quel cugino di secondo o terzo grado, che non avevo mai conosciuto, ma che in famiglia godeva di una sorta di mitologia. Giovane e promettente pianista palermitano, diplomato a pieni voti al conservatorio, con una carriera praticamente già scritta, aveva deciso di essere parte del movimento di Chiara Lubich, era partito alla volta di Loppiano e ci era voluto poco perché diventasse una delle punte di diamante dei Gen Rosso (basterà  citarvi un paio di canzoni, installate a perfezione nell’immaginario collettivo, per farvi capire all’istante di cosa sto parlando – Conosco un’altra Umanità, Resta qui con noi, giusto per citarne un paio).

Partii da sola. In treno, curiosa, sprovveduta e senza alcuna aspettativa.

A Loppiano conobbi Sandro, mio cugino, un artista bravvissimo, colto, buono e gioviale e con lui il movimento dei Focolari di Chiara Lubich.

Pareva un luogo metafisico: le colline toscane, il tramonto pacato di ottobre, gli ulivi, le viti in frutto e lo spirito di chi viveva nella “Cittadella”, con il sorriso a portata di mano. C’era gente d’ogni dove, financo due monaci buddhisti in ritiro spirituale. Alle amiche siciliane, alle quali raccontavo di questo posto così fuori dal comune, venne il dubbio: “Sei capitata in qualche strana confraternità?” mi chiedevano perplesse. Macché, nulla di tutto ciò, ovviamente. A Loppiano conobbi Lucjia, una ragazza che non ho più visto, ma che mi è rimasta nel cuore. Era Slovena e non aveva manco vent’anni. Studiava Lettere all’università della Cittadella. Aveva gli occhi trasparenti, la favella intelligente e un’intermittenza rosea sulle guance, prerogativa delle persone dolci e timide. Fu lei a raccontarmi per filo e per segno di Chiara Lubich, della sua intuizione, della rivoluzione di cui fu capace. Mi raccontava una storia, che quasi mi pareva una favola e lo faceva tra i prati rasserenanti di Loppiano, che pareva un luogo senza spazio e senza tempo.

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Io ascoltavo e ascoltavo. La storia di Silvia Lubich, questa ragazza di Trento, dai bei capelli neri, dal sorriso acuto e dalla mente aperta. La storia di Silvia, che poi diventò Chiara, che sotto i bombardamenti aveva trovato il filo conduttore della sua vita, dove vita più non c’era, mi innamorava.

Mi facevano battere il cuore il coraggio, la tenacia, la fiducia, l’anticonformismo. Una ragazza di manco trent’anni che era capace di tenere testa ad alti prelati, che aveva l’ardire di voler scrivere regole nuove, dentro le rigide gerarchie del mondo cattolico. Accoglienza, ecumenismo, laicismo e un’idea di sana libertà (dai cliché, dal pregiudizio spicciolo, dal  timore del confronto con il “diverso”) che erano una storia nuova per la Chiesa cattolica. Chiara Lubich, penso avesse ragione chi l’ha definita una bombola d’ossigeno per il mondo Cattolico, più in generale per quello religioso.

Quando andai a Loppiano, Chiara Lubich era ancora su questa terra e il suo carisma si rifletteva tra le persone che la conoscevano, che la frequentavano abitualmente. Lessi un suo libro, una corrispondenza dei tempi del primo focolare. Lettere fitte con le amiche, con i familiari, con la madre in particolare. Mi commuovevano le righe di una donna che era fortissima, ma che in quelle “letterine” tornava bambina, sapeva chiedere scusa ed era all’altezza di scrivere dichiarazioni d’amore sincero ai suoi familiari (quanto è difficile dire ti voglio bene di cuore a chi ne vogliamo davvero?). La grande Chiara Lubich, che dal nulla aveva creato i Focolarini, che, come diceva Wojtyla “hanno invaso di sorrisi il mondo”. La prima donna a capo di un movimento cattolico, la prima donna ad interagire con non so quanti leader politici e religiosi. Una leader anche lei, di quelle che ce ne vorrebbero a centinaia. La stessa Chiara, che scriveva “letterine” così dolci e sincere da far sentire migliore anche chi le leggeva.

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Questo e altro negli anni mi hanno fatto innamorare di Chiara Lubich. La capacità del movimento di accogliere a braccia aperta gli atei, i religiosi non cattolici, non cristiani, i divorziati risposati, dando un esempio alla Chiesa. Chiara Lubich che ha coniato una sorta di nuova intelligenza cattolica, fuori da qualsivoglia pregiudizio, dal bigottismo aberrante e dalle cialtronerie che diventano pretesto. La bellezza di Chiara Lubich, una donna con dei tailleur adorabili e i capelli perfettamente in ordine. Un dettaglio, che mi ha affascinata subito, perché la cura di sé credo sia un grande atto d’amore. Devo a lei, a quel viaggio a Loppiano, se le mia fede piccina e claudicante ha ripreso la sua strada. Una fede piena di falle, ma che è pur sempre una grande risorsa. Quando dubito, e capita (eccome se capita) penso a Chiara Lubich ed è un faro di certezze concrete. Chiara che ha umanizzato la fede, facendo sì che la si potesse prendere per mano, senza troppi paroloni, dogmi, terrorismi e ipocrisie.  Chiara che sapeva sorridere e con il sorriso ha tenuto testa a mezzo mondo. Che grande donna! Chiara che sostituito il verbo “morire” con “partire”, regalando speranza, che ha diffuso la buona abitudine che le chiese restino aperte cosicché chi è solo possa trovarvi rifugio (invito che dalla Chiesa andrebbe accolto su più larga scala), Chiara che aveva una mente aperta ed ha seminato una fede libera, dagli spazi ampi, facendone dono anche a chi, come me, non avrebbe mai potuto trovare posto dentro uno posto angusto e perfetto. Io, con la mia fede piccina e imperfetta le sono intimamente grata.

Scrivo questo articolo su input di un’amica focolarina, Eugenia, che mi ha invitata a vedere stasera il film tv dedicato a Chiara Lubich (alle 21.20 su Rai 1). Ero dubbiosa, perché la fede è sempre stata un fatto molto personale. Mi sono convinta perché in questo giornale abbiamo parlato tanto e spesso di grandi donne e Chiara Lubich è stata una di queste.

 

 

 

 

 

 

Una risposta

  1. Ah… la mia Camilleri ?
    Sei la mia penna preferita…. da bere con gli occhi …. quando inizio a leggere mi fermo.. perche l’istante che mi rubi è bellissimo e va goduto tutto insieme !!

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