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Quel bimbo morto di meningite e noi medici che ancora lo piangiamo

Giuseppe Guagliardito, quattordici mesi appena, morì di meningite al Di Cristina di Palermo. Archiviata le posizioni dei nove medici indagati. Ecco il racconto di uno dei sanitari che tentó di salvarlo

È stata archiviata la posizione dei nove medici indagati per la morte del piccolo Giuseppe Guagliardito di Palermo, ucciso da una meningite fulminante il 27 febbraio del 2018. I sanitari, due dell’ospedale Buccheri La Ferla, gli altri del Di Cristina, erano stati accusati di omicidio colposo. Il Gip, dopo due anni di indagini, valutate le posizioni dei medici e considerate le relazioni dei due periti, nominati dalla Procura di Palermo,  ha archiviato il caso. I nove medici non hanno colpe nel decesso del piccolo Giuseppe, anzi, hanno attuato tutti i regolari protocolli affinché al piccino, che aveva poco più di un anno, fosse salvata la vita. Questo, in buona sostanza, quanto dice il decreto di archiviazione.

Morire di meningite a quattordici mesi

Ripercorriamo la vicenda, che balzò fino alle cronache nazionali. Giuseppe la mattina del 27 febbraio, secondo quanto riferiranno i genitori ai sanitari, cade dal seggiolone e batte la testa. Da lì la decisione di portarlo al vicino ospedale Buccheri La Ferla. Il piccino viene trattato per trauma cranico, i medici constatano che il trauma non è “commotivo”, lo tengono in osservazione e quindi lo dimettono con prognosi di tre giorni. La situazione, quindi, secondo i medici non è grave ed anzi il bimbo avrebbe dato segni di buona ripresa già in ospedale. Nel pomeriggio però le condizioni di Giuseppe peggiorano. É  febbricitante, sonnolento, reagisce poco e niente agli stimoli. Il piccolo viene portato al Di Cristina, dove le sue condizioni, però precipitano attimo dopo attimo. Ricoverato in rianimazione in condizioni critiche, morirà il giorno seguente. La diagnosi di meningite, come riferiscono dall’ambiente ospedaliero, fu resa tempestivamente nota dai medici, che avevano attuato i prelievi del caso e iniziato un tentativo disperato di salvarlo, mediante terapia antibiotica, oltreché, ponendo in essere tutte le manovre di rianimazione cardiorespiratoria. La sepsi però aveva preso il sopravvento sul corpicino del piccolo Giuseppe. I genitori chiedevano giustizia, non comprendevano perché un bimbo portato in ospedale la mattina per una “banale” caduta dal seggiolone, fosse morto il giorno dopo con diagnosi di meningite. Gli esami e le consulenze mediche legali ed infettivologiche hanno confermato quanto da sempre dichiarato dai medici, che hanno avuto in cura Guagliardito. A uccidere il piccino è stato la Neisseria Meningitis, che, in letteratura, è descritta come l’agente eziologico della meningite batterica e di alcune setticemie, che, in un’alta percentuale di casi, portano alla morte chi ne viene colpito.

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Le parole di uno dei medici che tentó di salvare Giuseppe Guagliardito

A pochi giorni dalla notizia dell’archiviazione, ha voluto parlare con la nostra redazione uno dei medici che ha avuto in cura il piccino.

“Sapere che la nostra posizione è stata archiviata rincuora, perché dá ragione a tutto quanto abbiamo fatto per salvare la vita di Giuseppe. Ciò non toglie quel velo di dolore, che si è posato sui nostri cuori dopo quella indimenticabile notte di febbraio. Siamo medici, è vero. Ci è richiesta lucidità, tempismo ed anche quel sangue freddo, che è prerogativa del camice bianco. Siamo medici, ma siamo anche persone con cuori che battono, abbiamo a casa ad aspettarci mariti, mogli e figli. Siamo medici, ma anzitutto siamo uomini e donne dotati di sensibilità e la vicenda del piccolo Giuseppe ha sicuramente tracciato un solco importante nell’emotività di ciascuno di noi. Ricordo a memoria ogni istante di quella notte. Quel bimbo inerme, che peggiorava di attimo in attimo, seguendo le inspiegabili regole della natura, secondo le quali al mattino stai bene e la sera sei in coma. Certe malattie, e la meningite tra queste, a volte non danno scampo. Giuseppe ha avuto la sfortuna di avere avuto un decorso atipico: sintomi silenti, che sono diventati d’un tratto implacabili, non lasciando spazio ai medici di fare nulla. Perché i medici siamo chiamati a salvare vite, ma non siamo onnipotenti e questo andrebbe compreso, a margine delle tante polemiche che spesso ammantano la sanità. Ci sono criticità, per fortuna sempre più peregrine, per le quali non c’è rimedio.

Noi medici lo abbiamo pianto per primi

Giuseppe e la maledetta meningite che lo ha colpito, ne sono stati la prova. Quella notte, chi visitò in prima battuta il piccino, consapevole della drammaticità del caso, ha chiamato immediatamente i rianimatori, che sono accorsi all’istante. Alla velocità della luce il piccolo è stato sottoposto agli esami ematochimici, gli abbiamo praticato in vena la terapia antibiotica appropriata, aggrappandoci alla speranza che quel liquido facesse il miracolo. Eravamo un team di medici, ciascuno con la sua specializzazione ed abbiamo fatto tutto quel che potevamo. Poi, anche se questo i più no lo sapevano, ci siamo messi al suo capezzale per tutta la notte, a monitorarlo, a sperare e lo abbiamo pianto ancor prima dei suoi genitori, perché noi per primi abbiamo visto il suo cuoricino arrendersi a una malattia crudele, di cui è stato vittima senza colpa. Questo genere di meningiti infatti colpisce senza una regola. Il vaccino è un’ottima prevenzione, ma questo è un discorso più ampio e complesso. Ciò per dire che non vanno cercate le ragioni che avrebbero evitato questa malattia, così come non c’erano motivi e responsabilità medica per cui questa malattia non è stata potuta curare in modo da far guarire il piccolo. Il nostro caso è stato archiviato. Il Gip si è pronunciato: noi non abbiamo responsabilità in questa morte. Noi medici abbiamo fatto tutto quel che si doveva fare. Il dolore resta e resterà sempre. Anche se siamo medici, chiamati alla lucidità ed al sangue freddo, abbiamo cuori che palpitano e un pezzetto di questi resterà legato al ricordo, di quel bimbo sfortunato, che in una fredda notte di febbraio ci ha lasciati, mentre noi, al suo capezzale, infagottati nei nostri camici bianchi, lo abbiamo pianto per primi.”

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