L’amore è prepotente, può occupare tutto lo spazio del cuore senza chiedere permesso. Arriva mettendo tutto a soqquadro, rimodulando ogni concetto di ordine e di disordine e poi, certe volte, se ne va sbattendo la porta e chiudendoti a chiave per settimane, forse per mesi. Magari per sempre. E tu cerchi una copia di quella chiave per uscire di nuovo fuori, liberarti, ma l’Amore non te ne ha lasciato una copia. È lì che l’Amore rimane un rintocco del dolore o, altre volte ancora, resta solo attesa, illusione, autoinganno. L’Amore può essere autodistruttivo, e lo sapeva bene Adèle Hugo, figlia del noto scrittore francese, la quale finì in isolamento in un manicomio per un amore che inizialmente ricambiato si rivelò un rifiuto. L’uomo al quale il destino l’avrebbe legata per sempre sposò un’altra, eppure, Adele continuò a seguirlo per il mondo vivendo un amore immaginario. Oggi la Sindrome di Adele si può affrontare e curare in modi meno drastici. Ne parliamo con un’esperta: la Dott.ssa Florinda Picone, psicoterapeuta.
Quando un amore malato distorce la realtà
La Sindrome di Adele non è una semplice delusione d’amore, è un dolore che distorce la realtà, portandola a dividersi in cose troppo grandi o troppo piccole in relazione alle emozioni interiori che le accompagnano. Nel primo caso prende piede l’angoscia, quella paura di qualcosa che ci perseguita o vuol farci del male, e ciò nella realtà va a manifestarsi con ansia ed attacchi di panico. Le cose diventano così grandi come se volessero divorarci. Ci si sente inadeguati rispetto alla grandezza del mondo. Nel secondo ci si sente ingombranti, come se si potesse invadere gli altri, essere per loro, in questo caso per l’amato, solo un peso. Ci si sente non all’altezza, come se non ci fossero le condizioni per essere amati dall’altra persona, o perché invisibili o perché troppo pesanti, ingombranti. Percepire la realtà in maniera alterata – sottolinea la psicoterapeuta – è un modo di proiettare all’esterno i conflitti che ci sono nel nostro mondo interiore, e non lo facciamo solo con gli oggetti: la dismorfofobia va a distorcere anche la percezione del proprio corpo ed è questa che si associa a disturbi come l’anoressia. Un’ipotetica Adele, pensando di essere inaccettabile, crede di doversi autoeliminare, perde l’appetito e comincia a soffrire d’insonnia.
Quel cupo confine tra l’amore sano e la patologia
Il confine in questo caso è segnato dalla nostra sofferenza, che è quella che fa sì che qualcosa di bello e sano come l’amore diventi dipendenza, ossessione. Si spera che l’altro soddisfi dei bisogni che mancano a se stessi e questo costringe a limitarsi dentro un legame. Ma un rapporto si costruisce sempre in due, di qualunque forma esso sia: è come quando si gioca a scacchi. Si instaura un rapporto di interdipendenza dove si spera che l’altro guarisca le proprie ferite ma non lo fa. L’ altro non è il proprio guaritore, è solo nell’amore sano ogni bisogno che vive dentro di noi trova spontanea risoluzione, perché l’amore sano accetta l’alterità.
Adele pagò persino i debiti del suo apatico amato
Anche se non ricambiata la donna si sente sempre in debito nei confronti di chi ama. Pur di essere amata anch’essa di dà tanto, anche troppo, per la paura di perdere quell’unica misera possibilità di vivere l’amore. Adele fu persino disprezzata da quell’uomo, eppure, nel suo mondo immaginario pensava di doverlo aiutare come fosse suo marito, l’unico possibile amore concessole, come se non fosse scalfita dal dolore che infliggeva al suo cuore.
Come trattare la Sindrome di Adele
Ci sono aspetti simbolici e rappresentativi – spiega la dott.ssa Picone – che richiedono un percorso di psicoterapia. Quando si fa fatica a convivere con qualcosa che ci fa soffrire ci si rinchiude, più ci si sente soli e più si ricerca la solitudine, perché si ha l’ansia di stare con gli altri. Col progredire di questa sindrome, la donna comincia ad abbandonare la vita e a concentrarsi solo su un unico pensiero: l’immeritevole amato. Bisogna invece scoprire il volto del proprio limite e farselo amico. Spesso si fa fatica a riconoscere un problema psicologico per la vergogna di essere considerati malati sul piano mentale. Altrettanto triste è quando sono gli altri a non riconoscerlo, ad imputare al soggetto la colpa di una propria fantasia o fissazione. E questo senso di colpa per il soggetto diventa nocivo. Quando la sola psicoterapia non basta, bisogna affiancare, in seguito a visita neurologica e neuropsichiatrica, terapia farmacologica
Ma gli uomini?
Dalle ricerche la Sindrome di Adele Sembra colpire maggiormente le donne, forse perché sono queste a chiedere con più facilità aiuto a uno psicoterapeuta. Gli uomini, di certo, soffrono pure loro, ma fanno ancora più fatica a riconosce la propria sofferenza e spesso pensano di potersela cavare da soli. Ma davvero ne sono in grado?!
Abbiamo intervistato Florinda Picone, psicoterapeuta a indirizzo psicodinamico e gruppo analitico. È socio fondatrice dell’Associazione Spazio Rêverie, una realtà dove professionisti come psichiatri, psicologi e psicoterapeuti lavorano attivamente e organizzano eventi per la cura degli aspetti psicologici e relazionali. Lavora anche al SerT, dove si occupa di dipendenze comportamentali e in ospedale al sostegno dei pazienti nelle aree più critiche, come il reparto di oncologia.