La festa di san Calogero era il giorno del mio nonno non preferito. Si chiamava Cola, in onore del santo nero, bello ed elemosiniere. Quel giorno per me era l’ultimo dell’estate, che ci salutava in maniera dirompente. Non ricordo infatti una sola festa di San Caló senza caldo massacrante. Il sole in asse sulla testa e l’assenza di una chiazza di ombra, dove trovare respiro. San Calogero era attesa: della unica e grande festa che mio nonno organizzava. La nostra era una famiglia monumentale, dove le solennità erano il pretesto per stare insieme, condividendo la tavola, le ore lente, i litigi e le conciliazioni. Mio nonno non amava i riti familiari, ma la quarta domenica di agosto faceva un’eccezione. Era la festa di un santo solenne, che gli aveva prestato il nome e lui, orgoglioso organizzava tutto per tempo. L’amore per San Calogero si misurava in grano, pomodori e melanzane. Più volevi bene al santo e maggiori erano i kg di pasta e melanzane da preparare in suo onore e poi ancora “u picciliddu”, ovvero una grande pezzo di pane plasmato a forma di bambino (in realtà più somigliante a certe bambole etrusche). Ricordo che mia mamma fece così tante e tali promesse al santo, la volta che, lattante di pochi mesi mi ammalai di dissenteria, da dover commissionare al panettiere “picciliddi” anche quando piccilidda non ero più da tempo.
Il santo delle promesse
San Calogero è il santo delle “prummisioni”, delle promesse solenni, una sorta di patto ancestrale stipulato con il grande santo nel silenzio della preghiera. Tu mi fai questa grazia e io in cambio ti prometto kg e kg di pasta, di pane e anzitutto “u viaggiu scanzu”, quello sì, almeno un tempo, era una forma di sacrificio. I devoti in processione sparsa ad accompagnare il santo dalla Matrice fino al Convento. Un km e mezzo tutto in salita, sotto il sole di mezzogiorno e per giunta a piedi scalzi. Fortuna che per strada c’erano la pasta ed il pane, che altri fedeli distribuivano per adempiere anch’essi a una qualche importantissima “prummisioni”.
Si dice di San Calogero che sia sí un santo misericordioso ma guai a disattendere una promessa, l’ira del taumaturgo potrebbe diventare funesta. Da lì leggende su leggende, di fedeli con la memoria corta e puntualmente redarguiti dal santo entro la mezzanotte del giorno della sua festa. Io ascoltavo queste ed altre storie a occhi sgranati e sognavo che mia mamma mi autorizzasse a fare il “viaggio scanzu”, cosa che però non si verificò mai, perché mia mamma, a ragion veduta, sosteneva che i bambini non dovessero mai fare sacrifici. Tutt’al più mi dava il benestare per partecipare alla processione della domenica mattina, mi comprava un vestito nuovo, fresco, senza maniche e i sandali alla francescana, di pelle marrone e profumata, “che così non ti fai lei bolle ai piedi.”
Finita la processione correvo spedita verso la festa di nonno Cola. Un pranzo succulento, seppur semplice, un tavolo imperiale con quaranta e più posti a sedere, poi l’anguria e la torta al gelato dei fratelli Capodici. La grande caffettiera, che brontolava dal fornellino sotto il tinello, annunciava la pausa, il silenzio sonnecchioso delle domeniche di agosto, quando ancora non sai il tempo che farà domani.
Mio nonno Cola aderiva alla sua festa con un entusiasmo silenzioso, temperando le sue tante asperità con appena un paio di sorrisi. Quel giorno era felice, ma non si concedeva il lusso di dimostrarlo.
la festa più attesa della stagione
Ogni anno, in questa domenica puntualmente calda, ricordo quel tempo fortunato dell’infanzia. Ripenso alla festa del paese, la più attesa della stagione, quella che regalava l’ultimo sole sgargiante e la coda di caldo agostana. Ogni tanto torno con piacere a Casteltermini a rivedere San Calogero e a partecipare ai festeggiamenti. Mi accorgo che, tra le tante cose che cambiano, la tradizione legata al santo nero resta uguale. C’è un imperativo che attraversa i rituali della quarta domenica di agosto: ogni cosa va fatta ad alta voce, perché il santo, ma anche “gli altri”, vedano e sentano, non sia mai che il bel Calogero abbia ad offendersi. Non esistono riserbo, nè preghiere sottovoce, ma urla, tamburi, carità e sacrificio da far vedere a tutti. Perché così è il culto a San Calogero. Ed ecco i portatori della pesantissima statua, che fanno a gara per sostenere sulle spalle il gran santo. Ed ecco i cori degli “evviva San Caló” e i promettenti, che cucinano pasta lungo il tragitto del santo, farsi annunciare da cori e battimani. Una festa allegra, a ricordo di un santo questuante, che viveva di elemosine, che faceva paura, perché aveva il colore di chi viene da lontano ed allora il pane, l’uva e chissà cos’altro, gli venivano lanciati dalle finestre. Perché il popolo di Sicilia ha un cuore grande, ma guardingo. Oggi si fa un gran parlare del colore di San Calogero. Lo si paragona agli immigrati. “Se amate lui, dovete amare anche loro.” Quando ero piccina e si sapeva poco o nulla di chi tentava la salvezza per mare, il santo nero non destava curiosità o domande. Era nero. Punto. Senza somiglianze o similitudini. Mosè aveva le corna, Santa Lucia custodiva gli occhi dentro un piattino e San Calogero era nero e gli volevamo bene perché così ci avevano insegnato. Oggi, vedendo sui social foto e filmati della festa del mio paese, ho provato quella nostalgia che ti fa scendere due lacrime buone. Ho ricordato me da bambina con gli occhi sgranati e il desiderio mai esaudito di fare, a piedi scalzi, un km e passa, in salita, sotto il sole agostano e di mezzogiorno. Ho ricordato il tavolo imperiale di una grande famiglia, umile, capace, allora, di essere più forte delle tante fragilità che mandano in dissesto i migliori sentimenti. Ho ricordato il mio nonno non preferito, che, tra le sue tante asperità, sapeva a modo suo volermi bene. Ho sorriso di cuore ed ho pensato che è già la quarta domenica di agosto, l’ultima con il caldo accecante e con tutti i colori dell’estate al loro posto. O almeno così dovrebbe essere.
Al mio nonno non preferito, che ho amato tanto, anche se non gliel’ho mai detto.