Avevo 21 anni, una camicia alla marinara e un paio di pantaloni scuri, che mettevano in risalto una silhouette conquistata a fatica. Era luglio, di mattina, con il sole bianco siciliano, che copriva ogni cosa e lo faceva senza pietà. Quel giorno conobbi Andrea Camilleri e fu per caso. Facevo gavetta al Giornale di Sicilia, redazione di Agrigento. Il redattore capo, Fofó Bugea, aveva appuntamento con il maestro. Entrambi empedoclini, si stimavano e incontravano quando possibile, ogniqualvolta che il maestro tornava alla Marina.
“Marco, Maristella, venite con me da Camilleri?”
Non mi pareva vero. La monotonia di un lunedì estivo, con le strade deserte e nessuna traccia di scoop da confezionare, aveva preso una piega del tutto inaspettata. Fofó Bugea, il redattore capo, giornalista di lungo corso, era (e probabilmente è ancora) fatto così: severo, a volte di poche parole, ma capace di movimenti di cuore inaspettati, spiazzanti.
Camilleri alla Marina
Nella piazza principale della Marina, Camilleri era seduto al solito bar. Ci accolse con quel sorriso da vecchio saggio e ci offrí una sigaretta per uno, Multifilter rosse. Ci porse il pacchetto con quel fare siculo, che non ammette diniego. Ordinó granita di caffè ed ancora caffè espresso. E parlava, parlava e parlava ancora.
Parlava e fumava, ma senza aspirare e lasciando a metà ciascuna sigaretta. Ci parló, quasi del tutto a senso unico, per una, due, forse tre ore. Mentre il sole implacabile del luglio siciliano si rifletteva dappertutto, tradendo l’ombra del piccolo ombrellone, sotto il quale ci eravamo rifugiati, lui si raccontava. Penso che Camilleri amasse parecchio parlare di sè, ma lo faceva con un talento singolare: non prediligeva l’autoreferenza, men che meno autocelebrarsi. Mentre lui si raccontava, in realtà, dischiudeva storia, geografia, arte, costume ed anche una punto di pettegolezzo, ma di quello buono. Ci raccontó della guerra, della sua infanzia, di quando, ragazzo smilzo e timido, durante il secondo conflitto mondiale, fu nascosto su un carro, in mezzo alla paglia e lí fece un viaggio lunghissimo, da Porto Empedocle fino a Palermo, scordandosi perfino di respirare pur di non farsi sentire. Ci parló della strage di Porto Empedocle, quella della guerra di mafia degli anni ‘80, quando lui rischió di lasciarci le penne per l’unica colpa di trovarsi al solito bar, lo stesso dove eravamo seduti quella mattina. Ci raccontó la storia della Sicilia, la riassunse non dimenticandone però i particolari più importanti. Poi si voltò verso Marco (Marco Messina, a lungo cronista al Giornale di Sicilia n.d.r). “Tu mi somigli a qualcuno, a chi appartieni (maniera sicula di chiedere “di chi sei figlio?”).
Chi era Cetta?
Il mio collega, un ragazzone che, manco a farlo apposta, somigliava parecchio a Zingaretti in Montalbano, gli rispose timido:
”Mia mamma si chiamava Cetta!”
Camilleri si illuminò e stavolta il suo sorriso non era quello del vecchio saggio, aveva il sentore limpido della fanciullezza.
”Cetta, Cetta: gli occhi più belli di tutta Agrigento!”
Declamó quella frase come se la avesse tirata con la forza da uno dei suoi romanzi più belli.
Era quasi ora di pranzo quando Camilleri decise che era arrivato il momento di andare. Ci chiese però di accompagnarlo verso la casa paterna, nel cuore di Porto Empedocle. Passeggiavamo e lui raccontava e raccontava ancora, senza esaurire argomenti, lontano dall’annoiarsi e dall’annoiarci.
Ci salutammo e lui fu raggiunto dall’inseparabile moglie. Io, che allora non ero manco pubblicista, il redattore capo ed il cronista tornammo verso Agrigento dicendoci poche parole, carichi dell’entusiasmo muto di cui ci aveva caricati Nenè. Mi girai tra le mani la Multifilter rossa e la infilai dentro un involucro di fortuna. Una volta a casa la misi dentro a un suo romanzo, Il corso delle cose, che mi era stato regalato da una collega universitaria perché, a suo dire, aveva più d’uno spunto semiotico. Quella sigaretta è ancora lá e quel libro, lo riconosco, non l’ho mai letto. È rimasto immobile a conservare uno dei ricordi più belli e privilegiati, che mi abbia regalato il mio mestiere.
Quel pomeriggio, con l’entusiasmo senza filtri dei vent’anni, mi pavoneggiai con mezza Casteltermini: “Ho conosciuto Camilleri. Gli ho anche fatto un paio domande.”
La domanda che mi facevano tutti era banale, ma inevitabile: “È simpatico Camilleri?”
A distanza di diciassette anni mi viene da rispondere che Camilleri non era esattamente simpatico, del resto questa dote non credo gli servisse. Camilleri era rispettoso, attento, coltissimo, ironico, pungente, siculo, adamantino, schietto, erotico (lo era ineludibilmente. Lo era nei suoi libri ed anche quando chiacchierava in pulpito o viso a viso. Intercalava qualche battuta osè, con il suo accento forte, che rendeva comico quello che, sulla bocca di un altro, sarebbe apparso volgare).
I siciliani che cercano Sicilia
Ho letto molti suoi libri e li ho gustati soprattutto negli anni lontani dalla Sicilia. Quelle pagine mi facevano compagnia perché, ammettiamolo, noi siciliani quando siamo fuori dalla nostra Isola abbiamo bisogno di trovare la Sicilia: in un incontro, in un piatto di pasta alla Norma, in una cartolina o in un libro di Camilleri.
Mi sono emozionata nel vedere “La scomparsa di Pató” diventare un film. Fui felice, perché una delle parti era stata affidata a un mio carissimo amico, Fabrizio Giuliano, che ha preceduto il maestro nella partenza verso ciò che non ha fine.
Ho rivisto Camilleri molte altre volte: a Roma, a Bologna, a Palermo e ad Agrigento. Nessuna volta però fu bella come quel giorno di luglio a Porto Empedocle, con il caldo massacrante, le Multifilter e la mia maglietta alla marinara. Ero giovane, inesperta e piena di più d’un entusiasmo. Quel giorno mi sentii fiera di condividere con Camilleri quantomeno le origini. A Fofó Bugea, il redattore capo e il bravo giornalista di lungo corso, che più d’una volta con me era stato burbero, oggi dico grazie perché quel giorno mi fece un regalo prezioso. Oggi è anche l’occasione propizia per dire grazie al mio primo redattore capo perché, in quelle giornate afose d’estate, mi bacchettava e mi bacchettava ancora. Io arricciavo il naso e mi incazzavo (lo dico così per come lo penso). Non capivo che quel giornalista “Marinisi” non solo mi stava insegnando il mestiere più bello del mondo, ma stava anche dandomi l’input a perseverare. Dietro i miei nasi storti c’era e c’è la stima verso un professionista. Grazie ad Alfonso anche per avermi consentito di usare questa immagine di copertina, che lo ritrae in uno dei tanti “caffè” presi d’estate con Nenè.