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Non lasciamo le mamme da sole

La storia di Pina, che si è lanciata nel Tevere e la solitudine di molte madri

Pina, Sara, Benedetta e il fiume. Una storia che mi ha percosso il cuore. Perché, se è vero che qualsiasi madre, che compie il gesto più estremo, atterrisce i cuori, la storia di Pina fa versare ancora qualche lacrima in più.

Lei, 38 anni, una gravidanza desiderata sopra ogni cosa. La bella notizia: l’attesa di 3 gemelle. Il trasferimento dalla piccola Agnone alla sconfinata Roma. La gravidanza è complicata, occorre che Pina sia seguita al Gemelli. Il parto prematuro. Molto prematuro. Una delle tre bimbe non ce la fa. Le altre due rimangono a lottare in Utin per mesi. Tornano a casa a venti giorni di distanza l’una dall’altra. Il secondo fiocco rosa viene appeso il 17 dicembre scorso. È una ghirlanda che si confonde tra i tanti addobbi natalizi del quartiere Testaccio di Roma. La città offre, è vero, ma sottrae. Toglie intimità, calore, rapporti uno a uno, financo quella possibilità banale di andare a trovare una vecchia zia, solo perché hai bisogno di un sorriso familiare, di una voce “conosciuta”, di una mano sul cuore.

Una città sconfinata e un cuore impaurito

Forse aveva bisogno di questo Pina, nella sconfinata Roma, dove viveva più per  necessità che per volontà. La dinamica dei fatti la conosciamo ormai a memoria. È dolorosa, lenta, con un finale non del tutto concluso.

Tra le righe di questo giornale abbiamo parlato spesso di depressione post partum e di piccole vite sospese tra monitor, bip bip e camici sterili.

La terapia intensiva neonatale la comprendi davvero solo se la vivi.

Il primo incontro con tuo figlio che non è felicità, ma paura. Lui minuscolo, attaccato a tubi, fili, suoni strani e chissà cos’altro. Per molte, quel primo incontro instilla il solo desiderio della fuga. Da te, da lui, da tutto questo destino che ti è piovuto addosso mentre sognavi la felicità. È tutto profondamente lontano dal sogno del parto, di un bimbo sporco d’amore e poggiato sul cuore.

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La terapia intensiva neonatale

L’Utin è solidarietà e amicizia per la pelle, con gente che conosci appena. È gioire per un etto in più e piangere disperata una notte intera se, in quei pochi minuti passati vicino a tuo figlio, lui era assorto, poco reattivo, non aveva voglia di succhiare il tuo latte. Chissà quanti tra questi e altri pensieri ha partorito la mente di Pina in questi mesi.

Quando esci dall’Utin ti attende un nuovo inizio. I faldoni delle dimissioni da studiare, le precauzioni da prendere, gli screening neuropsichiatrici. Un cammino lungo, lento, dovizioso, con tanti punti di domanda tra una visita e un’altra.

Una mamma non va lasciata sola

Un noto neuropsichiatra una volta ci disse che una donna, che ha vissuto un evento di parto traumatico e una storia di Utin, non andrebbe mai lasciata da sola una volta a casa. Andrebbe seguita con prudenza, silenzio o voce alta, a seconda dei suoi bisogni. Perché la mamma di un bimbo prematuro è anch’ella una mamma prematura ed ha bisogno di una mano sulla spalla, di una voce confortante, di qualcuno che le insegni a non temere. Perché la nascita di un figlio è felicità da costruire piano piano. Perché una mamma prematura può avere angosce inconfessabili, sentori di inadeguatezza, l’anima spiazzata da una già ampia dose di dolore.

Noi non conosciamo la vita di Pina, non sappiamo se la sua solitudine fosse un fatto solo intimo o fisico, totalizzante. Non è importante. L’anima è il solo testo che non si può recensire. Fa male che sia andata così. Ma così è andata e da questa triste storia forse possiamo imparare a lenire solitudini, a saperle anticipare a comprendere che sono molte di più di quanto non immaginiamo.

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