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Mio figlio che ama Halloween e la mia felicità per il 2 novembre

Le generazioni che cambiano e una tradizione tutta sicula, che rende festoso anche il giorno della tristezza

“Un figlio è la scommessa di amare quanto di più diverso da te esista.”
Questa frase la sentii dire a una psicologa in occasione di un’intervista. L’ho cucita addosso e la ripeto ogniqualvolta mi sembrano incomprensibili le trovate di mio figlio o quando i punti in comune sono così pochi da pensare: “Ma davvero è figlio mio?”
Succede per cose importanti, ma anche per i piccoli contrappunti. Ed ecco cosa è accaduto in questi giorni di festa. Mio figlio in fibrillazione per Halloween, festeggiato come si deve e a più riprese ed io, che ho tentato di instradarlo alla magia della festa dei morti in Sicilia. Ho recuperato un cestino di vimini, ho fatto incetta di taralli, tetú, reginelle, moscardini, torinesi, frutta Martorana e pupo di zucchero. Ho composto il tutto con devozione e una volta presentato il “capolavoro” al mio bambino ho ricevuto in replica uno sguardo distratto e il commento: “Va bene mamma, me lo racconti più tardi e poi a me la frutta martorana non piace, è troppo dolce.”
Dell’arduo mestiere di madre ho imparato, ad oggi, poche cose, una di queste è che insistere con i bimbi serve a poco, tutt’al più si può cercare di pazientare. Tentare poi di contagiargli una passione che è tua, può essere una partita persa dieci a zero.
Mentre il mio piccino si gode il suo bottino di Hallowen, io guardo il “cannistro” e penso a tante cose belle.

La festa dei morti, quando ero bambina, era la mia preferita. Lo era ancor più del Natale, che già allora mi metteva addosso un pezzetto di malinconia.

 

Quello per “chi è partito”, in Sicilia, è un culto buono, consolatorio, che profuma di storie antiche, di frutta martorana, di zucchero sparso nell’aria, di foto antiche, di stupore di bimbi al risveglio del grande giorno. Nella notte tra Ognissanti e il 2 novembre, chi ha lasciato il sipario della vita, torna a calcare la scena. Lo fa per una notte appena, a condizione di procedere in punta di piedi, di accennare qualcosa sottovoce e di spargere doni ai piccini, senza il retrogusto del ricattuccio: “Se fai il monello arriverà solo carbone!”
Ricordo a memoria i pomeriggi a casa di nonna Tatà. A metà ottobre, la nonna e la zia Grazia allestivano nel tinello una sorta di tabernacolo. C’erano una ventina di foto e per ciascuna un cero votivo.

I morti nobili d’America

C’era una coppia elegante. Lui in bombetta, frac e baffi all’inglese. Lei sottobraccio: un donna superba. Pelle di cera, avvolta in una pelliccia da nobildonna, dalla quale spiccava un girocollo di grosse perle, che sarebbe risultato pacchiano indosso a chiunque, ma non a quella “principessa” che dicevano mi venisse parente. Erano zii di un tempo lontano. Vissuti e morti chissà dove, nel cuore opulento dell’America. Forse neppure la nonna li aveva mai conosciuti. Forse quella foto l’avevano scelta in qualche catalogo dei sogni e l’avevano spedita, fin dentro la Sicilia, per illudere, chi era rimasto, che sognare in grande è concesso a tutti. C’era poi la foto di un tizio riccioluto con la tromba. Pareva Louis Armstrong. Le guance a esplosione, nel gesto di buttare fuori quanto più fiato possibile. Tra tutti lui era il mio “morticino” preferito e lo avevo eletto, in un plebiscito tutto personale, l’anima buona che la mattina del 2 novembre mi faceva trovare dolci e giocattoli. Anche quel giovane, baldo e riccioluto chissà se è mai esistito?

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Poi c’erano i “morticeddi” privilegiati. Quelli che si erano installati talmente bene nel cuore dei vivi, da meritare il posto d’onore. Lo zio Calogero e la zia Ciuzza erano fra questi. Due nomi che nonna pronunciava con un amore così grande che ancora ricordo il timbro della sua voce nel dire: pinu Calò e pina Ciù (con quei “pinu” e “pina” che rafforzavano il concetto). Alle cinque in punto del pomeriggio, a casa di nonna si radunava una piccola platea di fedelissime (vicine di casa, parenti, compari di banco in parrocchia) e partivano le interminabili giaculatorie. Adoravo quelle giornate. A Casteltermini c’era un freschetto già tardo autunnale. A casa della nonna si accendeva l’enorme stufa e gas e mentre si pregava, a turno, qualcuna delle oranti, rosario alla mano, metteva sul fuoco la moka da dodici e stendeva sul tavolo la tovaglia ricamata a punto erba. Pregando pregando, si sgranocchiavano taralli, tetù e reginelle, ed ancora castagne arrosto, semi di zucca e di girasole. Ci si allungava, a turno, un plaid di motivo scozzese, che era confortante al pari di una carezza sincera.

Nel giorno dei morti racconti di vita

 

Quando terminavano le orazioni, partivano i racconti. In quel momento “i morticeddi” parevano uscire dalle foto. Ciascuno con la sua storia. Con la punteggiatura fitta, dove le virgole stavano per le disgrazie e i punto e a capo per i momenti felici. Ogni tanto nonna Tatà asciugava una lacrima e ricominciava, con quel suo talento singolare nel narrare storie dense di incroci, bivi e svolte obbligate. La nonna custodiva stretto nel petto un ricordo e un dolore grandi: il volto di sua madre, che “era partita per il Paradiso” giovane e bella, quando lei avevo solo nove anni. “Una vita senza mamma non è vita facile, anche se intorno avevo tanto amore. E ricordate, ammoniva severa Tatà: la mamma è l’arma, cu la perdi nun la guadagna.”

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Non ho mai compreso se “arma” stesse per anima o se fosse l’iperbole di arma assoluta di difesa. Il tono greve e trionfalistico della nonna lasciava sicuramente intendere qualcosa di maestoso, che andava al di là del significato in senso stretto.

La vigilia si andava a letto presto. I morticini non passavano a visitare i bimbi svegli. C’era poi una leggenda spaventosissima che circolava in paese: la processione dei defunti, a mezzanotte in pollice, scendeva dal cimitero, attraversava quel dedalo di viuzze che è il quartiere “Convento” e una volta in centro storico percorreva la cosiddetta “strada dei santi”. Guai a intralciare il corteo, era auspicabile rimanere a casa e non gironzolare oltre le 23 e 55 minuti. Uno sprovveduto, che aveva osato sfidare la sorte, alla vista della professione di “anime sante” diventó bianco di terrore e così rimase, dalla testa ai piedi, fino alla fine dei suoi giorni.

La grande gioia del 2 novembre

Il due novembre il primo sguardo era alla scrivania. Lì, in trono, c’era il piatto dei morticeddi. Era bellissimo, con quella pupa di zucchero enorme, colorata ma impossibile da mangiare. Il sapore era stucchevole forse per preservarne la bellezza al pari di un’opera d’arte. Poi la frutta martorana: il ficodindia era il mio preferito. Non lo mangiavo mai, lo conservavo in una scatola di latta e di tanto in tanto andavo ad ammirarlo. Una volta nonno Raffaele, che sapeva far bene il mestiere di nonno, mi portò in tutte le pasticcerie del paese (all’epoca erano tante: fumiganti, con code lunghissime di compratori e scaffali traboccanti di delizie) alla ricerca del cestino più bello. Vinse un’adorabile borsetta in vimini, con un fiocco celeste al centro, piena di frutti di marzapane. Era esposta da Capodici in via Roma. Per entrare, ci siamo fatti largo tra due ali di folla: la prima era in fila per i biscotti, la seconda per il marzapane. Nonostante la calca, riuscimmo nell’impresa. Misi la borsetta sottobraccio e passeggiando per il corso pieno di gente mi sentii esattamente felice: io, mio nonno e quel cestino che era sicuramente il “cannistro” più bello che i morticeddi potessero calare sulla terra.

 

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La “gita” al cimitero

Di primo pomeriggio si andava al cimitero a ringraziare i morticini: la nonna Piddra, la cui mitologia di donna minuta d’aspetto ma monumentale nell’animo era un caposaldo della famiglia. Quindi la pletora di prozii ed amici di famiglia passati ad altra vita. In provincia usava che i bimbi, nel giorno dei morti, indossassero i vestiti nuovi e le prime scarpe invernali. Infiocchettata a puntino, facevo la mia scarpinata tra loculi, tombe gentilizie e accenni di mausolei. La sepoltura più bella l’aveva, e l’ha ancora, donna Lucrezia, signora di villa Maria. Un Angelo ad ali spiegate, scolpito nel marmo di Carrara, più in basso la più celebre tra le rime ermetiche: “Ciascuno sta solo sul cuore della terra…”
Rimanevo a contemplare quella tomba, immaginando storie di castelli, dame e cavalieri. C’era poi quello scrigno di cristallo, che é la tomba della famiglia Di Pisa, sterminata dalla tragedia di Punta Raisi. La piccola Mariliana avrebbe pressapoco la mia età, se il Padre Eterno non l’avesse trattenuta in cielo, quando mancavano pochi giorni al Natale. Provavo compassione, nel senso letterale del patire insieme, per quella bimba occhialuta, la cui storia a Casteltermini tutti conosciamo a memoria e riviviamo con dolore a ogni anniversario.

Il piatto dei morti

Al tramonto si tornava a casa. Si ammirava “il piatto dei morti”, che detta così parrebbe una cosa lugubre, ma in realtà era la somma di tante delizie, come solo in Sicilia se ne preparano. Si sgranocchiava ancora qualche dolcetto e ci si rannicchiava nella malinconia delle feste quando sono finite. Che privilegio crescere in una terra che, tra tanti punti oscuri, sa fare luminoso il giorno che dovrebbe essere del pianto. Sa rendere profumato un momento di malinconia al punto da farlo festoso, metaforizzando bene come si dovrebbe prendere la vita.

 

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