Era il 2008, ero giovane, volitiva e decisi di passare l’estate a Lampedusa. Non da gitante, ma da giornalista. Avrei fatto da appoggio per le corrispondenze del TgS e, soprattutto, avrei realizzato dei reportage per un mensile nascente, ingenuo e senza filtri, Fuori riga. Ero eccitata. Ottenuti tutti i lasciapassare, mi imbarcai su un charter di 50 posti e planai sul cielo mediterraneo. Lì provai una delle emozioni più grandi della mia vita. Era sera tardi e dopo venti minuti di volo ci si parò davanti l’isola, con i suoi contorni e la drammatica certezza che è di tutte le isole: hanno una fine e un inizio, che puoi vedere anche a occhio nudo. Non sapevo da che parte cominciare. Avevo un paio di recapiti e i numeri di telefono di alcuni colleghi “veterani”. Ne incontrai uno la sera stessa, un ragazzo che lavorava a contratto per Sky e la sera farciva panini in un pub di via Roma. Mi spiegò che dovevamo tampinare una certa fonte, che ci avrebbe aggiornati sugli sbarchi, che dovevo stare attenta a non comprare foto inedite e sottobanco da “taluni trafficanti”. “Le passano ai cronisti sprovveduti!”
Il primo sbarco
Soprattuto dovevo stare allerta. Notte e giorno. Perché lo sbarco non sai mai quando capita. Molo Favarolo, mezzo pomeriggio, luglio, mare buono: il primo sbarco a cui ho assitito. Ero confusa, imbranata, esaltata. Avevo in tasca un’autorizzazione della Prefettura di Agrigento, che mi referenziava come giornalista, mi accreditava ad accedere al Cpa e anche sulla banchina mi era un minimo di aiuto. C’erano uomini delle forze dell’ordine. Alcuni ligi, altri tutt’altro. Poi iniziò la discesa. Io scattavo foto a ripetizione. Nella mia mente ricordavo le parole del mio primo direttore: “Ascolta, guarda, scruta. Le notizie più importanti le cogli senza fare una sola domanda.”
Aguzzai la vista. C’era una colonna di uomini, donne e bimbi di tutte le età. Scendevano in fila indiana da un mezzo della capitaneria. Li coprivano, uno a uno, con le coperte “d’oro” e subito venivano controllati: bocca, occhi, mani. C’erano medici e volontari di Emergency, capitanati da un bel ragazzone nero d’onice. Un ex clandestino, mi sussurrava qualcuno. Uno che ha fatto strada. Si è laureato, si è sposato ed tornato qui, da dove è iniziato tutto. Ho cercato di avvicinarmi. Un poliziotto mi ha fermata: “Possono avere la scabbia”. Voleva farmi paura? Ho fatto un giro più largo e mi sono infilata in una prospettiva migliore. Ho zoommato sui volti. Avevano un denominatore comune: lo sguardo di chi ha passato la paura. Ho pensato a me dopo un atterraggio aereo. Mi è sembrato un pensiero infantile, sciocco. Con il senno di poi, comprendo che le paure si somigliano tutte e rendono simili gli uomini.
La visita al Cpa di Lampedusa
Il giorno dopo sono stata al Cpa, il centro di prima accoglienza. Varcato il cancello ho sentito cattivo odore. Qualcuno tra i miei colleghi ha sciorinato la solita manfrina dei neri che puzzano. Un poliziotto ci ha ammoniti: puzziamo tutti d’estate, a 40 gradi, se ci accalchiamo e possiamo fare la doccia un giorno sì e due no.
Silenzio.
Al Cpa ho conosciuto un simpatico cuoco di Favara: gentile, umile, misericordioso. Ho visto volontari insegnare, meticolosi, l’italiano agli ospiti più piccoli. Ho osservato uno dei responsabili sfuggire alle domande, chiudere porte e riaprirne altre, tamburellare nervoso con le dita su qualsiasi cosa gli capitasse davanti. Quell’uomo non mi convinse. Sebbene ci abbia scambiato quattro parole.
Betlemme dalla Libia
Ho conosciuto Betlemme, una libica di 20 anni. Le mani affusolatissime stringevano otto sigarette. “La mia dose quotidiana di felicità.”
Mi ha detto così quando abbiamo iniziato quella che doveva essere un’intervista, ma che fu una chiacchierata claudicante, filtrata dagli occhi di zucchero filato dell’interprete.
Betlemme aveva uno sguardo installato altrove. Nel volto e nel corpo ampio, la bellezza accogliente, che è solo delle donne d’Africa
“I’m from Libia. I want a job, honest or dishonest, but I want a job”.
“È solo stanca, le passerà.”
Ha sussurrato l’inteprete, con il sorriso di ceralacca.
Betlemme mi ha guardata, e ha ricominciato:
“Freedom and job, freedom and job”.
Si è rigirata tra le mani le otto sigarette, ne ha poggiata una sulle labbra, si è guardata intorno. A gesti mi ha chiesto se avessi da accendere.
“No, I’m sorry.”
Betlemme ha iniziato a parlare veloce, pareva avesse il timore che la sua confidenza potesse essere assalita da qualcuno più svelto di lei.
“Ci danno le sigarette – ha detto – ma qui nessuno ha mai da accendere…”.
Ha lasciato la frase appesa.
Sono andata via, salutando frettolosamente lei e l’interprete. Ho scelto di non incrociare gli occhi di Betlemme. Certi sguardi hanno la pretesa di volerci rimanere appiccicati addosso e di farci da grillo parlante, quando abbiamo poche cose da raccontare a noi stessi.
Dopo quel giorno, a Lampedusa ho visto altri sbarchi e visitato altre volte il Cpa. Ho raccolto storie, risentito quell’odore penetrante, ho cercato di fotografare sguardi, avvicinandomi anche oltre il consentito.
Non sono più tornata a Lampedusa
Dopo quella volta, però, non sono più tornata a Lampedusa. Ci ho provato, ma non ci sono riuscita. Certi dolori li comprendi solo se li vedi, li annusi, li tocchi. Fortuna che poi c’era il mare, bello da non poterlo descrivere. Mi ci infilavo dentro e dimenticavo. O così sembrava.
Palermo la multietnica
Da allora sono passati dieci e passa anni. Vivo a Palermo, una città multietnica, dove per un bianco c’è un nero e viceversa. Qua il razzismo, quello legato al colore della pelle e all’etnia, è un discorso molto relativo. Abito a due passi dalla moschea e ogni giorno incontro non so quanti extracomunitari. Sono sincera, perché il “foglio” bianco me lo impone. Alcuni di loro non mi ispirano alcuna misericordia. Non me ne ispira un certo parassita, che a volte sparisce ed altre si aggira in centro sul far della sera, minaccioso disturba le donne in cambio di qualche soldo (vuole solo quelli). Non me ne ispirano certi parcheggiatori grandi e grossi, gli stessi che, due anni fa, proprio davanti all’Ospedale dei bambini mi braccarono minacciosi e mi costrinsero a chiamare i Carabinieri. Di contro prendo esempio da certi genitori garbati, che incontro ora dalla pediatra, ora al centro vaccini. Sono gentili, silenziosi, prudenti come i più educati ospiti (perché molti di loro si sentono tali per sempre). Tanto di cappello a certe “tate” africane, conosciute grazie alle amichette di Raffi: materne, dolci, accoglienti, con un senso del dovere estremo. Che dire poi di una famigliola, che mi presentò un’amica e che volle parteciparci la gioia del primo figlio maschio, condivendo con noi deliziosi dolciumi africani, sorrisi e canzoni della loro terra? Ci fu anche un sudafricano che mi rincorse con il cuore in gola alla fermata del bus. Io incalzavo il passo spaventata e lui voleva solo restituirmi la borsa porta pc, scordata su un seggiolino del 101.
Sono razzista?
Potrei fare tanti e più esempi, perché la città dove vivo me ne regala di quotidiani. Sono razzista? Sì, lo ammetto, lo sono. Sono razzista verso tutto quello che disturba la mia idea di libertà. Capita che lo faccia un nero, succede (forse ancor più spesso) che lo faccia un bianco. Chi non è o non è stato razzista almeno una volta?
Sono anche confusa. Perché l’odio razziale è diventato un argomento totalizzante e sta azzerando la misericordia di tutte le parti in causa.
Quando ascolto i diktat di taluni governanti o leggo i fondamentalismi di chi ha preso una posizione e basta, penso a quell’ estate a Lampedusa. Ricordo il caldo, il dolore visto e annusato, la voglia di andare via e non tornare, quel sentirmi fortunata solo perché nata nel lato giusto del mondo. Ripesco a memoria i messaggi contrastanti di quel Cpa: c’era chi accoglieva a braccia aperte e chi lo faceva stringendo i pugni in tasca. Su tutto ricordo Betlemme. Lei vent’anni e io ventotto. Io fiera, con la voglia di conquistare il mio pezzo di mondo, lei bellissima, con lo sguardo puntato nel vuoto e il solo desiderio di rimanere a galla.