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L’asfissia neonatale è una delle principali emergenze post partum

Grazie ai reparti di Tin molto bimbi nati in ipossia riescono a salvarsi e ad avere una vita normale. Ci spiega tutto il neonatologo Ettore Mascellino

Sono molte le coppie di genitori , che sperimentano l’esperienza della Tin, terapia intensiva neonatale. La nascita del proprio piccolo è attesa sempre con una giustificata dose di paura, generalmente però non si immagina (o non si vuole immaginare) che qualcosa possa andare per come non dovrebbe e che il piccolo possa essere trasferito d’urgenza in un apposito reparto di terapia intensiva. Sono momenti concitati, nella maggior parte dei casi non prevedibili. Spesso il trasferimento in tin avviene dopo una gravidanza serena, a volte addirittura anche dopo un parto naturale e un iniziale contatto tra mamma e bambino. Sono decine le cause che comportano la scelta della degenza del piccino nelle unità intensive. I reparti di terapia intensiva neonatale sono come dei “non luoghi”, che proteggono i piccolissimi in un limbo di incubatrici, camici, silenzio. In tin possono entrare solo i genitori, che devono indossare camici e calzari e disinfettarsi ben bene prima dell’ingresso in reparto. Tutto si svolge sottovoce, dai controlli dei bimbi da parte del personale, al giro dei puericultori, fino ai dialoghi tra le mamme ed i papà. In tin si sentono tanti “bip bip”, il suono che esce dagli aggeggi “attaccati” ai piccoli. Un suono che è sinonimo di vita, ma anche di paura, per quelle mamme che temono un battito fuori posto o un respiro mancato. In tin si solidarizza, tra genitori i cui bimbi sono “vicini di incubatrici”. Ci si scambiano timori, progetti e desideri. Il più grande è sempre quello di andar via quanto prima possibile dal reparto. Perché in tin tuo figlio pare in prestito. Hai quasi paura a toccarlo, sebbene gli addetti ai lavori ti incitino ad allattarlo, a fargli, nei limiti del possibile, le carezze di cui mamma e figlio hanno, in egual misura, bisogno. Benedette siano le tin, che consentono alla vita di andare avanti. Una mamma si rende conto di quanto preziosi siano tali reparti, una volta usciti fuori, quando la vita prende il suo corso regolare e tuo figlio cresce sano. Così non sarebbe stato se non avesse avuto quei primi fondamentali soccorsi e quindi le cure adeguate. Una delle cause più frequenti dei trasferimenti in terapia intensiva neonatale è la cosiddetta ipossia, dovuta, in soldoni, a un’asfissia al momento della nascita. Ne parliamo con Ettore Mascellino, neonatologo e dirigente medico all’Utin dell’ospedale Arnas Civico di Palermo. All’intervista ha collaborato la dottoressa Mariangela Militello, specializzanda. Considerata la complessità del tema trattato, pubblichiamo l’intervista in due parti. Ecco la prima.

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Dottore, si sente spesso parlare di bimbi che nascono in stato di ipossia. Di cosa si tratta e che livelli di ipossia conosciamo?

L’asfissia perinatale, più appropriatamente detta encefalopatia ipossico-ischemica (HIE), consiste in un insulto cerebrale, acuto o subacuto, dovuto ad asfissia. Per asfissia intendiamo la condizione in cui gli scambi gassosi polmonari o placentari sono alterati conducendo progressivamente a ipossiemia (mancanza di ossigeno) e ipercapnia (eccesso di anidride carbonica nei liquidi corporei). Il termine ipossia denota una parziale carenza di ossigeno in uno o più tessuti. Nonostante i progressi compiuti in campo neonatologico, l’HIE rimane una seria condizione, causa di significativa mortalità e morbilità a lungo termine. Rappresenta una delle cause più comunemente riconosciute di paralisi cerebrale infantile (6-23%). Si stima che da 1 a 4 neonati su mille viene colpito da HIE. La HIE è una sindrome clinica caratterizzata da disturbi della funzione neurologica nei primi giorni di vita, tipica nei neonati a termine, molto più rara nei nati pretermine.

Abbiamo tre livelli di gravità dell’HIE:

 

Lieve: caratterizzata da alterazione del tono muscolare, solitamente aumentato, riflessi osteo-tendinei vivaci, irritabilità, pianto inconsolabile, sonnolenza, pupille in midriasi, che generalmente si risolvono nelle prime 24 ore di vita.
Moderata: il neonato appare letargico, ipotonico, con riflessi neonatali ridotti o assenti, può presentare episodi di apnea, pupille in miosi e convulsioni. È possibile un recupero nelle prime due settimane di vita, con buona prognosi a lungo termine.
Severa: in cui le convulsioni possono essere importanti e resistenti al trattamento, il neonato si presenta in stato di stupore o coma, respiro irregolare, ipotonia e assenza di riflessi, i movimenti oculari e pupillari appaiono alterati, inoltre irregolarità dell’attività cardiaca e della pressione arteriosa ne possono compromettere la sopravvivenza. La prognosi è negativa in termini di mortalità ed esiti a distanza.

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Quali sono le cause più comuni di questa problematica alla nascita? Quali legate alla mamma e quali al bambino?

Un ridotto flusso ematico cerebrale, l’ipossiemia sistemica o entrambi sono alla base dell’instaurarsi della HIE. Spesso la causa sottostante e l’esatto momento in cui si è instaurato il processo rimangono sconosciuti. Quando possibile, le cause o meglio i fattori di rischio, sono da rintracciare nel periodo pre-partum quindi legate allo stato di salute materno e alla gravidanza (es. diabete, ipertensione, anemia, pregresse morti neonatali, placenta previa, corionamnionite, uso di droghe, alcool e farmaci), intra-partum (uso di forcipe o ventosa, presentazioni anomale, parto distocico, travaglio prolungato, distacco di placenta, prolasso del funicolo) e post-partum, cioè legate a condizioni neonatali (prematurità, idrope, liquido tinto, ritardo di crescita intrauterino, malformazioni, cardiopatie congenite, distress respiratorio, gemellarità). Spesso più fattori intervengono nel determinare la patologia.

Quali le operazioni di primo intervento dall’equipe dei neonatologi?

Una volta posto il sospetto di diagnosi di HEI, il neonato va stabilizzato e trasferito nel più vicino centro di terapia intensiva neonatale fornito di apparecchiatura e personale ad elevato livello di competenza, in termini di ipotermia e gestione del paziente neurologico. A meno che il parto non sia avvenuto in un centro di III livello, la fase del trasporto rappresenta un momento di particolare criticità e va effettuato con mezzi e figure professionali dedicate.
In questa fase si deve porre attenzione ai seguenti punti:
Monitorare i parametri vitali;
Posizionare un accesso venoso;
Mantenere una temperatura corporea non superiore a 35°C, mediante spegnimento di ogni fonte di riscaldamento. Se fosse difficoltoso mantenere la temperatura intorno ai 35° è possibile utilizzare un sacchetto di ghiaccio artificiale posto vicino al corpo del bambino, ma non a stretto contatto per evitare ustioni da freddo.
Evitare se possibile l’uso di ossigeno perché l’iperossigenazione peggiora il danno nel paziente anossico.

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Il bimbo è trasferito in UTIN. Lì cosa succede? Quali i tempi di permanenza?

In TIN il neonato viene accolto dall’equipe, preventivamente avvisata dell’arrivo del piccolo con sospetto di HEI. Viene posto sull’isola neonatale e collegato a monitoraggio continuo dei parametri vitali, viene reperito un accesso venoso centrale ed eseguiti i prelievi ematici. Confermata la diagnosi, vengono valutati i criteri per l’eventuale trattamento ipotermico. Fondamentale è la registrazione dell’attività elettrica cerebrale. Grazie alle indagini ecografiche vengono valutati i principali organi: cuore, encefalo ed organi addominali. Il piccolo riceve tutte le terapie di cui necessita, tra cui il trattamento della frequente insufficienza multiorgano (cuore, rene, polmone), la ventilazione meccanica qualora necessaria, il trattamento dell’eventuale stato convulsivo; particolare attenzione va posta alla terapia antalgica al fine di alleviare le sofferenze del piccolo paziente. Superata la fase critica, l’intensità delle cure si riduce, si passa gradualmente al respiro spontaneo ed il neonato inizia ad essere alimentato. Nei casi a decorso favorevole il piccolo può lasciare la TIN mediamente dopo 2 settimane e dopo un breve periodo in terapia sub-intensiva può essere dimesso e continuare un attento follow-up multidisciplinare. I casi a decorso sfavorevole possono richiedere cure intensive per un tempo difficilmente definibile. Durante la permanenza in TIN i genitori possono comunque accedere al reparto e stare vicino al proprio figlio, supportati dalla figura del medico e dello psicologo.

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