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L’angoscia delle mamme reali e il lato oscuro dei social

Intervistiamo in merito il professore Daniele La Barbera, psichiatra al Policlinico Universitario di Palermo

C’è il mondo vissuto da dentro che, in una sola parola, è imperfetto. Con la sua alternanza di cose belle e di cose brutte non sempre equilibrata. C’è poi il mondo sognato, visto, anzi, scrutato dal buco della serratura dei nostri smartphone. É il mondo virtuale, quello tutto rose e fiori, grondante sorrisi, successi e cose belle. I padroni di casa lì sono gli influencer, “belli, ricchi e famosi”, come recita un luogo comune. Uomini, donne che, da sera a mattina, si raccontano e propinano un ideale di perfezione, credibile a tal punto che il mondo di dentro, quello vero, pieno di giorni sì e  di giorni no, pare il posto più misero possibile.

Parlava di questo la giornalista Selvaggia Lucarelli (anche lei, del resto, opinion leader con un milione e passa di followers). Oggetto del contendere erano le mamme influencer, un fenomeno virtuale che tiene banco da diversi anni e che alimenta anche un potente giro di affari di aziende che gravitano intorno ai profili più cliccati.

Che i figli siano uno, due, ma anche cinque o sei poco importa. Conta il numero di seguaci, ai quali propinare, tra una pappa e un bagnetto, tra la paturnia di un pre adolescente e il virus del piccolo di casa,  consigli per gli acquisti di tutti i generi. Accade, nel frattempo, che le celeberrime mamme raccontino la loro vita, che è perfetta e quasi mai perfettibile. Un menage al quale manca poco o nulla. Con i pezzi del puzzle tutti incastrati a perfezione. Figli bellissimi, buonissimi, pulitissimi. Mariti da encomio. Nonni perfetti: presenti, premurosi, giammai invadenti, sempre pronti a regalare la fuga salva-coppia ai giovani genitori. Poi gli amici, tanti e tutti fedelissimi. Le vacanze da sogno. Quindi l’armadio pieno di griffes, il design delle case, tutte all’ultima moda. Tra una zoommata e l’altra, tra uno stivaletto animalier e un armadio nordic style, scorrono i titoli di coda, quei tag acchiappa clienti e gli incitamenti a cliccare e ad approfittare del codice sconto “Mamma Allegria 1990”.

Non è la norma, ma diciamo che il grosso del mondo “mamme influencer” si muove intorno a questo baricentro. Succede poi che qualcuna parli a sproposito di Covid e di contagi dei più piccoli e lì la Lucarelli, come nel suo stile, ci va giù pesante. Scatta la solidarietà tra influencer, perché uno dei perni del successo social è il fare rete. Lo spalleggiarsi, sempre e comunque, in nome di un’amicizia senza eguali, spesso basata però su una conoscenza solo virtuale.

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La Lucarelli ha sollevato un problema serio, quello dello straparlare senza competenze di argomenti seri, rischiando, considerato l’ascendente delle mamme social sulle loro seguaci, di attivare un circolo vizioso dannosissimo. Selvaggia ha anche però puntato inconsapevolmente un altro faro sul fenomeno: quanti disagio instillano le vite perfette in chi ha una vita tutt’altro che tale?

Per tantissime mamme il mondo social non è una innocente evasione, ma è la sola maniera per agganciarsi alla realtà. Ci sono le mamme sole, quelle inesperte, quelle disperate per via di una depressione post partum incompresa.

Del resto la maternità, si sa, è un percorso difficile ed oggigiorno lo è più di sempre.

Abbiamo chiesto al professore Daniele La Barbera, psichiatra al Policlinico universitario Paolo Giaccone di Palermo, un parere sull’ argomento.

Professore la barbera, le mamme social, quanto possono diventare “pericolose” per le mamme reali?

Partiamo da due presupposti. Un tempo la maternità era una questione collettiva. Le famiglie erano lunghe e larghe, c’era tanta condivisione di intenti e di sentimenti e quindi il peso, dovuto alle oggettive difficoltà del diventare madri, veniva suddiviso in una comunità fatta di nonni, parenti ed anche di vicini di casa. Oggi non è più così. Ci sono tantissime mamme sole, che, soprattutto quando il loro piccolo è ancora neonato, passano tantissimo tempo in casa, possibilmente in pigiama, ciondolando, tra una poppata e l’altra, con le incertezze del tutto naturali che il nuovo ruolo di madre configura nella mente di una donna. Arrivano quindi in “soccorso” i social, questo mondo tecnologico di cui non possiamo più fare a meno e che assolutamente non mi sento di demonizzare, a patto che si stabilisca con questa dimensione un rapporto critico e non passivo, come ahimè spesso accade.

Da psichiatra, come definirebbe la dipendenza dalle influencer?

Mi faccia passare il termine forte: come una sorta di pornografia. Mi spiego meglio. C’è un abisso tra la realtà vera, quella che cioè viviamo nel mondo reale e la realtà presentata dai social, che è un inno alla perfezione, un modello inarrivabile di cose belle e per certi versi impossibili (potrà mai la mamma comune diventare come la Ferragni? Obiettivamente no). Da lì la metafora con la pornografia, che è una distorsione della sessualità vera. Dalla pornografia io posso essere sì attratto, può stuzzicarmi, ma la sfera sessuale reale è tutt’altro. Ha limiti, scoperte, incertezze, ma può essere bellissima. Lo stesso vale per le mamme influencer: possono stimolare la mamma ‘vera’, a patto che abbia chiaro che la realtà è un’altra ed è molto distante dal profilo che clicchiamo continuamente perché ci intriga, perché apparentemente lo apprezziamo, ma che in realtà ci crea un forte senso di frustrazione.

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La dipendenza da social, ne parlano evidenze mediche, può avere conseguenze estreme: depressione, angoscia, fino ad arrivare al tentato suicidio

Può succedere, eccome. Pensiamo a un caso limite, ma non isolato: una mamma single, con pochi soldi a disposizione, senza sostegni familiari. La sua esposizione costante e morbosa alla vita perfetta di qualsiasi mamma influencer sarà deleteria e andrà a sottolineare le sue numerose mancanze. La mamma vera non avrà gli strumenti per capire che quello che osserva su Instagram, Fb o Tiktok è un mondo falsato da regole sovente commerciali. Maturerà un senso di angoscia tale da poter scatenare delle vere e proprie turbe emotive. Il consiglio quindi, di base, è quello di porre un recinto nell’accesso ai social. Non consiglio di alienarsi dalla realtà virtuale, che per molti è indispensabile, ma di usufruirne per un tempo stabilito ogni giorno, così da disintossicarsi con le modalità dovute. Ovviamente suggerisco il ricorso a figure mediche specializzate, quali lo psicologo o lo psichiatra, qualora il mondo social dovesse diventare una dipendenza, addirittura un legame tossico.

Siamo tutti un po’ social dipendenti?

Per certi versi sì. Viviamo in un’era difficilissima, complicata dalla pandemia, che ha dato ancor più potere ai socialnetwork. A questi canali va il merito di aver facilitato le comunicazioni e accorciato le distanze in un tempo in cui la socialità vera si è ridotta all’osso.

Ritengo che ragazzi ed adulti, anche i detrattori, siano iscritti almeno ad un social e che ciascuno di noi, pure ingenuamente, tende a essere un piccolo influencer: accade quando postiamo orgogliosi le foto di un viaggio, di un piatto prelibato, di un momento felice. Vogliamo ostentare quella parte bella della nostra vita, o quel che sappiamo fare meglio, cosicché gli altri possano vederla e perché no, un pizzico invidiarci. Finché si tratta di uno svago, di un innocente pavoneggiarsi, non c’è nulla da opinare. É fondamentale che il mondo virtuale non sostituisca quello reale e non diventi un modello, perché sarebbe in partenza fallimentare. Inoltre i genitori di bimbi o di adolescenti devono comprendere che i figli li osservano: un genitore dipendente dalla tecnologia avrà un figlio altrettanto, se non di più, dipendente dalla tecnologia.

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Dipendenza tecnologica, è un male evitabile?

Lo è se riusciamo a configurare un’etica social. La dipendenza tecnologica non ha età, pensi che ho in cura persone molto anziane che passano le loro giornate attaccate agli smartphone. Che curiosano in continuazione gli ultimi aggiornamenti di fb o di whatsapp, anche quando passeggiano, cucinano o sono in bagno. A loro rischio e pericolo ovviamente.

Occorre pensare a un’ipotetica barra di comando, che ci dica “stop” quando è il momento di disconnettersi e di riagganciarsi con il mondo reale. Anche perché il mondo virtuale, a forza di essere frequentato, può disvelare tante insidie, basti pensare alle truffe online o al rischio di diventare acquirenti compulsivi in taluni portali. Le relazioni finte o l’osservazione delle vite perfette degli altri può affascinare, quando va bene, angosciare in tanti altri casi. Ricordiamoci che la vita vera, con i suoi dolori, i limiti e le insoddisfazioni, può darci però delle gioie che i social neppure si sognano. Certo, oggi viviamo un tempo difficile come mai, ma resto fiducioso nelle risorse di ciascuno e nel fatto che, chiedendo aiuto se è necessario, il reale possa avere la meglio sull’immaginario. Tornando alle mamme, dalle quali è iniziata la conversazione, ritengo che con il sostegno che meritano, provando a uscire dalla solitudine e agganciando una compagnia reale (a volte è sufficiente un piccolo passo per uscire dal proprio nido) potranno vivere meglio la loro condizione. Senza la zavorra del paragone con un mondo che poco o nulla ha a che fare con la vita vera, che è sí difficile ma può riservare bellissime sorprese.

 

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