Quando ero incinta di Raffaele, arrivò il giorno in cui la mia ginecologa mi parlò dello screening prenatale. Non sapevo cosa fosse. Avevo vissuto le prime settimane di gravidanza nel limbo della felicità, nell’ovatta di una dimensione nuova, in cui la donna si sente tempio. La dottoressa mi spiegò che lo screening, che si fa tra l’11 e la 13 settimana di gravidanza, serve a capire se vi è una predisposizione del feto alla sindrome di Down ed alla trisomia. Della prima sindrome avevo sentito abbondantemente parlare, senza però conoscerne i dettagli diciamo scientifici. Della seconda non sapevo quasi nulla. L’assistente della mia ginecologa, una brava ostetrica, mi spiegò in breve di cosa si trattasse. Ero in un’età borderline, 35 anni, che non sono tanti, ma possono predisporre a una delle due “situazioni”. Mi fu spiegato che, qualora i risultati dello screening (un semplice prelievo di sangue, abbinato alla cosiddetta translucenza nucale che altro non è se non una ecografia dettagliata, in cui si studia lo spessore della nuca del bimbo) avessero destato dei sospetti, si sarebbe dovuto procedere, tempestivamente, ad ulteriori accertamenti. Nel mio caso le cose andarono bene. Lo screening era perfettamente allineato con i parametri. Con mio marito non ci pensammo più. Non fu così, però, per una giovane donna che incontravo, di tanto in tanto, nella sala d’attesa della mia dottoressa.
Ricordo il suo sguardo smarrito e la sua inconsueta scontrosità, una volta che ci trovammo sedute vicine ad attendere il controllo mensile.
Quando, mesi e mesi dopo, con i pancioni in bella vista ci mostravano orgogliose del dovere diventare madri, lei si aprì in uno sfogo sereno. “Mio figlio nascerà con la sindrome di Down, mi disse. Quando l’ho saputo è stata una mazzata in testa, di quelle che stordiscono. Non capii nulla. Mai avrei pensato che potesse succedere a me ed a mio marito: giovani, belli, forti, che nel momento in cui abbiamo desiderato un figlio, siamo riusciti a concepirlo. Non abbiamo neppure precedenti familiari. Eppure ci è successo. Abbiamo fatto l’amniocentesi che ha confermato tutto e poi la scelta. Un bivio senza luce. Accettare o rifiutare ed andare avanti?. Non abbiamo dormito per due notti di seguito. Passavamo le giornate tra lacrime e tremori. Io 27 anni, mio marito due di più. Potevamo aspettare il prossimo giro e prendere la vicenda come un incidente da mettere in archivio…oppure afferrare il coraggio a quattro mani, capire che non era un caso se la vita aveva scelto per noi un’avventura simile, indossare le cinture di sicurezza e partire. Abbiamo scelto la seconda opzione, ed eccoci qui, con questo pancione enorme e lui che scalcia felice”.
Cosa vi ha convinti? Ho chiesto.
“Non ci crederà, non sono stati i pareri dei medici, che ovviamente cercano di essere neutrali, per quanto possibile. Quanto parlare direttamente con la mamma di una ragazza Down. Le abbiamo incontrate in un negozio del centro. Facevano shopping. Sembravano due amiche. Erano dolci. Belle da vedere nella loro complicità. La mamma ci ha detto una sola frase: “Il mondo li vede diversi, ma loro sono felici così. Se potessero scegliere, deciderebbero di nascere. Loro ridono, giocano, scherzano, si innamorano. Chi siamo noi per non dargli questa possibilità?”
Questa frase mi è rimasta nel cuore
La ricordo con lucidità e la ripeto nella mia mente ogni volta che incontro una persona con sindrome di Down. “Loro sono felici così, è il mondo a vederli diversi”.
Mi piace pensare che anche il “mondo” oggi abbia un approccio differente, che non misuri la diversità solo sulla conta dei cromosomi. Sebbene molte cose siano ancora da fare, le persone con sindrome di Down riescono a sperimentare, come è giusto, l “inclusione”, che dà loro il meritato accesso alla scuola, al lavoro, alle attività ricreative ed anche ai sentimenti. Bisognerà ancora abbattere barriere umane, culturali e financo fisiche. Però la strada pare meno in salita. La stessa aspettativa di vita dei soggetti con sindrome di Down è cresciuta di ben quattro decadi rispetto a trentacinque anni fa. Questo grazie ai progressi della medicina e della diagnostica.
Leggiamo dal sito dell’ospedale pediatrico bambin Gesù di roma
La sindrome di Down è un’anomalia cromosomica che si manifesta attraverso diversi sintomi congeniti: le persone affette sono caratterizzate da una copia in eccesso del cromosoma 21 e possono manifestare sintomi fisici e disabilità intellettive. Tutti i casi diagnosticati presentano un ritardo cognitivo, ma il grado di disabilità è molto variabile tra gli individui affetti, con la maggior parte che rientra nella gamma di “poco” o “moderatamente disabili”.
I soggetti Down spesso possono essere affetti da altri problemi di salute, come ad esempio
- malformazioni cardiache
- difetti dell’udito
- disturbi intestinali
- alterazioni tiroidee
- disturbi scheletrici
- disturbi agli occhi
Per la sindrome di Down non esiste cura
Come leggiamo dal sito del Bambin Gesù però viene quindi intrapreso un approccio integrato e personalizzato in base alle necessità del singolo bimbo, che ha esigenze e punti di forza unici e diversi da quelli di qualsiasi altro bambino.
Il supporto medico più importante è probabilmente quello legato ai possibili rischi di salute connessi alla sindrome (difetti congeniti cardiaci, inclinazione allo sviluppo di infezioni, problemi di udito, …), che in alcuni casi richiedono un approccio chirurgico molto precoce.
Un intervento tempestivo attraverso attente e adeguate terapie riabilitative fisiche e mentali permette di aumentare significativamente la possibilità di un soddisfacente inserimento sociale, scolastico e lavorativo, con la possibilità di sviluppare una qualità di vita elevata.
Gli interventi possono consistere in:
- Terapia fisica, in grado di favorire un buon sviluppo fisico e motorio, aumentando anche tono e forza muscolare, postura ed equilibrio. Questo supporto è particolarmente importante in età pediatrica.
- Terapia logopedica, che può aiutare il bimbo affetto dalla sindrome a migliorare la propria capacità comunicativa, utilizzando il linguaggio in modo più efficace.
- Terapia occupazionale, che mira a sviluppare e mantenere le competenze necessaria nella vita quotidiana, scolastica e lavorativa.
- Terapia comportamentale, per aiutare a prevenire emozioni negative come la frustrazione dovuta all’incapacità di comunicare adeguatamente; questo approccio permette loro di imparere a gestire l’impulsività e i comportamenti compulsivi, favorendo al contempo lo sviluppo di qualità e capacità proprie di ogni soggetto.
Fattori di rischio
Sono un’elevata età materna (sopra i trentacinque anni il rischio inizia ad aumentare), l’ereditarietà (una mamma che ha concepito un figlio Down ha un’alta probabilità di concepirne un altro con stessa sindrome. Ovviamente non è detto che sia così) e fattori genetici.
Dal 1985 a oggi, come riporta uno studio americano, è aumentata la durata della vita dei soggetti affetti della sindrome, il 45% consegue il diploma di istruzione di scuola secondaria, il 15% la laurea. L’80% dei Down ha la capacità di vestirsi, lavarsi, cucinare, compiere le faccende domestiche e fare sport (ovviamente il dato è generale e va calato nello specifico del singolo soggetto). Il 25% ha un lavoro part time. Il 10% si sposa. Vi sono soggetti Down diventati campioni paralimpici. Un ragazzo Down americano ha vinto le olimpiadi di matematica.
Con queste poche righe, con le quali vogliamo dare un piccolo contributo alla giornata nazionale della Diversità e della Sindrome di Down, non vogliamo apparire buonisti o ancor peggio facilisti. Ha ragione, in questi casi, il luogo comune quando dice: facile parlare, non vivendo in prima persona determinate contingenze. Non tutti i casi di sindrome di Down sono uguali. Ve ne sono alcuni più gravi degli altri, dove i segni “patologici” sono più evidenti. Per loro, come per i familiari, il percorso è tutt’altro che semplice. Ci permettiamo di definire i genitori di bimbi Down come guerrieri, che hanno già vinto la battaglia più importante: quella delle genitorialità coraggiosa, che accetta e va avanti. Ci piace pensarla alla maniera di una mamma, intervistata in una edizione di Telethon: “Per la sindrome di Down non esiste cura perché non è una malattia. Trovatemi un genitore, che vedendo suo figlio sorridere e fare le facce buffe, pensi di lui che sia un ammalato!”.