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La scommessa che ho fatto prima della maturità e quel prof che ha creduto in me

Alla vigilia degli esami, un ricordo di alcuni anni fa

La mia maturità è stata scandita dalle pedalate di Marco Pantani. Lui: un mito, un campione, un eroe sportivo.

Mancava un mese esatto alla fine dell’ultimo anno scolastico.

La prof. di matematica aveva pensato bene di appioppare il compito in classe proprio nel giorno in cui da Agrigento sarebbe partito il Giro d’Italia.

”Prof, parte il Giro da qua!”

Contestammo all’unisono.

”Noi faremo il compito di matematica, pazienza!”

Trasgredii. Il ciclismo era la passione che colorava a la mia gioventù fatta di occhi bassi, maniere maldestre, guance che arrossivano spesso e, in contraltare, sogni giganteschi.

Presi coraggio e per la prima volta nella mia vita  bigiai. Che importava disertare l’ultimo compito di matematica, se in cambio avrei avuto la possibilità di coronare un sogno?

Raggiunsi a piedi San Leone da piazzale Rosselli. Una passeggiata lunga km, sotto il cielo felice di maggio e con in faccia un sole non ancora spavaldo.

Ero felice.
Il cuore mi batteva come quando ci si innamora.

Nessuno sapeva niente: né i miei genitori, né le compagne, né, ovviamente, quella prof. tanto ligia al dovere.

Mi piazzai dietro le transenne: ero arrivata prestissimo e avrei goduto in prima fila dello spettacolo. Pian piano arrivarono tutti: Fondriest, Gotti, Salvoldelli, Simoni. Mi brillavano gli occhi, mi tremavano le gambe. Poi il primo applauso roboante: era sbucato il campionissimo, Miguel Indurain, ormai fuori dalle gare, ma ancora pieno del fascino delle sue tante vittorie. Lui: il genio razionale della bicicletta, che una e più volte si era conteso le cime dolomitiche con il Pirata, che invece era cuore, anima e gambe sollevate sui pedali.

Non mi pareva vero. Sgranavo gli occhi e aspettavo che arrivasse lui, il mio idolo sportivo. Nella confusione generale scavalcai le transenne e me lo trovai davanti.

”Pantani, Pantani!”

Gli scattammo una raffica di foto, sperando che il rullino non ci tradisse.

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Poi il Giro partí spedito e io tornai faticosamente a casa. Avevo il cuore pieno di così tante cose, che quasi credevo di non poterle contenere.

Quel Giro andó come andó e io piansi lacrime calde, abbondanti e silenziose quando Pantani fu squalificato. Chi poteva capire cosa significasse per me  quel tizio pelato che domava le cime più ostili? Voleva dire riscatto, capacità di farcela, caparbia, forza e volontà. Lui, Pantani, che era un brutto anatroccolo, come lo ero io, che quando lo intervistavano sganciava due parole messe in croce, ma che sul Giovo, sul Sella, sull’Alpe d’Huez sapeva diventare bellissimo. Con fatica e con dolore riusciva ad arrivare primo.
Ogni volta non ce n’era per nessuno.

Quel giorno della squalifica, con l’ingenuità dei miei diciotto anni, promisi silenziosa a Pantani, che sarei riuscita a vincere il mio Giro d’Italia personale. Quale era la scommessa? Riuscire a maturarmi con il massimo dei voti, seppure non fossi esattamente candidata a quel traguardo. Era una scommessa da ragazzina, per la quale chicchessia mi avrebbe riso dietro. Ma io avevo dalla mia un dettaglio che faceva la differenza: ci credevo ostinatamente. Studiai e studiai ancora, carica di volontà, guardando dritto negli occhi il mio traguardo. Facevo i conti: dovevo aggiudicarmi tutti i punti a disposizione vuoi negli scritti, vuoi nell’orale. Era difficile, ma potevo farcela. Non sono mai stata una secchiona, men che meno la prima della classe. Mi concentravo sulle materie che facevano per me: italiano, greco, storia, filosofia. Il resto per me significava portare a termine un dovere. Stop. Stavolta però era diverso. Dovevo fare bene in tutto. Il primo giorno degli esami fibrillavo. Adoravo l’analisi del testo, perché consentiva una libera interpretazione delle opere intoccabili. Il tema previsto era un’analisi della poesia “I fiumi” di Ungaretti. Non l’avevamo studiata. Ma era una poesia così bella, che scelsi di osare e di liberare il coraggio. Scrissi pagine fitte della mia personale interpretazione di quella che diventó la mia lirica preferita: così struggente, descrittiva, piena di tinte. Andó bene, così come andó bene la versione di greco e quella terza prova dove un paio di domande riguardavano Freud, che tanto mi aveva affascinata, nelle lezioni di quel fuoriclasse del prof. Sciortino. Poi fu il giorno della prova orale ed ebbi davvero paura. Gli scritti erano andati per come speravo e non potevo permettermi alcuna défaillance. Era il primo anno con tutte le materie da sostenere, comprese la matematica e la fisica, per me due flagelli. Mi concentrai e iniziai da una tesina sul proletariato nel mondo antico e in quello contemporaneo. Se mi concentro ricordo ancora l’attacco del mio ripetere. Iniziarono a farmi domande e io rispondevo decisa, senza neppure arrossire, senza mai abbassare lo sguardo, senza paura. Pensavo alle Dolomiti, al passo Pordoi e sognavo che un giorno ci sarei stata e avrei visto da vicino le vette domate dal Pirata. Quando mi dissero che andava bene così e vollero sapere cosa avrei voluto fare da grande risposi ferma: la giornalista!

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C’era al mio fianco il prof. Biagio Milano, che sotto i baffetti brizzolati, aveva il sorriso degli uomini buoni.

”E ci riuscirà a diventare giornalista, perché è timida, ma determinata.”

Mi diede un buffetto sulla guancia già rossa di vergogna e con amore di padre fece un gesto, che non ho mai dimenticato: conservò uno a uno i miei libri dentro il mio Jolly Invicta, chiuse il gancio e indossó lui lo zaino al posto mio, accompagnandomi fin fuori la classe.

Mi congedai incredula e tornai al mio paesello sulle colline. Passarono i giorni e arrivó il giorno. Il quadro, i risultati e il mio sogno realizzato. Ce l’avevo fatta, chi me lo doveva dire? Non ci credeva nessuno, tranne me e il compianto prof. Milano, che ha lasciato i viali della vita decisamente troppo presto.

Qualche giorno dopo, fu proprio il mio prof., uscendo fuori da qualsiasi protocollo, a chiamarmi al telefono di casa e a esordire: “Ce l’hai fatta. Sono cento!”

Non sapeva della mia innocente scommessa, della sfida più grande di me, ma aveva compreso quello e molto altro. Negli anni di scuola più di una volta mi aveva protetto discreto quando ero un pulcino fragile. Comprendere i sogni di una persona timida, discreta, volendo anche imbranata, non é facile. Il mondo di quegli anni, così come quello di oggi, vorrebbe essere di chi non si vergogna.

Quella fu l’ultima volta che ho visto il prof. Milano, eppure mi pare ieri. Il piglio buono, la mano sulla spalla, il sorriso largo sotto i baffi brizzolati mi sono rimasti nel cuore.

Quella volta io ci ho creduto con tutta me stessa, ma anche lui ha fatto la sua parte credendoci con me.

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Auguro ai maturandi di provare le emozioni che ho provato io. Di crederci profondamente (perché se ci credi ce la fai “e non ce n’è per nessuno). Su tutto però auguro di avere qualcuno che metta loro una mano sulla spalla e che ci creda con loro. Così come in me ha creduto il mai dimenticato prof. Biagio Milano ❣️

Ps: Quel compito di matematica mi costó un sei in pagella. Ma volendo quello rimase un contrappunto. Sul Pordoi, sul Sella e su diversi altri passi dolomitici sono stata e ho verificato che sono come me li aspettavano, anzi molto di più. Ho provato la felicità di portare anche il mio bambino su quelle creste, che sono la misura della felicità e gli ho spiegato di Pantani, delle cime e dei sogni, nei quali si deve credere sempre, sennò la vita a cosa ci servirebbe?

 

 

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