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La “banalità” della Pasqua di una volta

Ricordi sparsi di un tempo lontano

La settimana santa in Sicilia non é un tempo triste. Sarà perché i nostri riti, tanto quelli della gioia, quanto quelli del dolore, vanno celebrati con solennità, senza solitudine, con l’abitudine di sommare alla liturgia il sapore delle cose buone.

Non ricordo i giorni che commemorano la passione di Cristo come il tempo del lutto. I giovedì santo della mia infanzia erano tante cose: il cielo del tutto azzurro, che disegnava l’orizzonte con la montagna di Mangiafava al centro e con il monte Sutera più a sinistra. Era l’inizio delle vacanze e la possibilità di stare tutti a casa, compresi i miei genitori, che solitamente vedevo poco. Era andare da nonna Stella e osservare la casa svegliarsi, nel triduo della passione, con i profumi della rinascita. Percorrevo entusiasta il piccolo ingresso della casa angolare ed esposta sul panorama più bello del paese. Le cinque sedie, perennemente allineate, erano un invito alla socialità, verso cui mia nonna aveva un talento singolare e di cui in molti hanno ancora memoria.  Ecco in soggiorno l’inno alla passione di Gesù. Nessun simulacro, non un crocifisso o un immagine del Cristo sofferente, ma un tripudio di fresie, disposte a cerchio davanti al divano “buono”, quello di velluto cremisi.  Erano fiori freschissimi, bagnati ancora dalla rugiada del mattino. Erano di tanti colori, sebbene prevalesse il lilla ed il bianco. Ogni tanto chiedevo alla nonna perché non esponesse quell’Ecce homo, custodito in una teca al secondo piano. “Perché per la passione Gesù Cristo vuole solo fiori profumati.” Mi diceva lei.

Questa risposta mi è rimasta impressa, così come l’abitudine, ogni giovedì santo, di allestire un altare di fiori e di “lavarudda”, germogli di grano e legumi in spicco di giallo e di verde. Il simbolo della primavera, della rinascita dalle tenebre, perché appunto il chicco si tiene al buio per settimane, prima che possa far germogliare le sue piantine.

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I sepolcri

Poi, fatta sera, i miei nonni mi portavano a visitare i sepolcri, gli altari della deposizione. Erano belli, rasserenanti, con i colori tenui dei fiori di campo e con le luci fioche dei ceri votivi. Soltanto uno degli altari mi dava un palpito sbilenco: quello allestito nella chiesa barocca di San Giuseppe. Lí c’era in trono il Cristo deposto, con il corpo livido,  contratto per l’atto della morte, il viso sofferente. Lo temevo e il sentore di quella paura mi é ancora chiaro in mente. L’altare più bello era quello della chiesa Madre. Contornava il cenacolo, scolpito da un artista, il Quarantino (che nella mia Casteltermini é nato ed è cresciuto), che avrebbe potuto essere immenso, se solo la fortuna o chissà cos’altro glielo avessero permesso. Era ed è un opera che ripercorreva, su pietra, il capolavoro di Leonardo e lo faceva sí con fedeltà, ma anche con l’estro personale che è dei veri artisti.

Il cenacolo di Quarantino a Casteltermini

U venniriessantu

Poi arrivava il giorno del dolore, “u venniriessantu”, pronunciato così, tutto per intero e con solennità. Era il giorno dei vestiti buoni, della processione dietro le statue sofferenti, dell’urna, portata a braccio da uomini vestiti a nero. Quell’urna era ed è un capolavoro di barocco, ma anche di fede. Era anche il giorno della pasta “a malinisa”, con le sarde fresche, l’uvetta, i pinoli, il finocchio selvatico e la mollica “atturrata”. Perché in Sicilia, nel giorno della penitenza, è obbligo di fede mangiare una delizia. Non per mancanza di rispetto verso il Cristo morto, tutt’altro, quanto per celebrarne, con uno dei talenti più intensi e appassionati del nostro popolo, il sacrificio sulla croce. Perché digiunare richiede forza, ma allestire una bella tavola e metterci sopra il frutto della terra e delle mani,  in Sicilia è segno dell’essere devoti. È, in buona sostanza, un atto d’amore.

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“Il sabato santo si rimane in silenzio.” Così diceva sempre nonna Tatà, donna di fede, ma anche d’azione.

Le acquasantiere restavano  asciutte e io avevo il pallino di verificarlo. Anno per anno. Era abitudine vedere su Rai 1 Gesù di Nazareth, ed anche se talune scene erano cruente, i bimbi erano ammessi alla visione. Al tempo i diktat montessoriani erano ben lontani e certe verità, così come i dogmi della fede (per chi era credente), venivano somministrati nudi e crudi anche ai piccini. Ora che sono mamma, lo confesso, ho più di una difficoltà a spiegare a mio figlio il perché in chiesa, uno di fronte all’altro, vi siano le statue di  Gesù bambino e quella del Nazareno. Sorvolo, svirgolo, rimedio una parte da vile, ma non recupero il coraggio di raccontargli quella storia, che alla sua età io già conoscevo a memoria.

La rinascita

La domenica di Pasqua era il giorno delle uova di cioccolato, dell’agnello di pasta reale, dei cannilera, biscotti di frolla all’antica, con al centro un uovo sodo ancora dentro il suo guscio. Era il giorno dei riti di provincia: i vestiti nuovi, le scarpe scomode, le passeggiate per le vie del centro, asfaltando per ore  via Roma e corso Umberto. Era l’incontro tra Gesù e Maria, gli archi di foglie verdi,  con appesi il pane “alla marmurata” (una glassa bianchissima decorata con confetti di zucchero) e le arance selvatiche. Gli anziani del paese, che incitavano: “Evviva santu Sarvaturi”, che è bellissimo, nel simulacro che lo vede in tutto simile a un bel giovane dall’aspetto retró.

Poi i tamburi della festa del Tataratà, che iniziavano a suonare laddove finiva il rito della Pasqua. Quel sentore di primavera, che passava sopra la pelle e la faceva accapponare per la felicità. I sorrisi larghi e lunghi. Gli auguri a ogni passo. Quindi gli abbracci, i baci, anche a chi conoscevi appena, perché la gioia delle festività rende gioviali, dispensa empatia, fa belli tutti. Fuori e dentro.

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In Sicilia di convivialitá siamo maestri, senza dover salire in cattedra ed i giorni della Pasqua sono la buona occasione per esprimere del tutto i cinque sensi di questa nostra terra.

 

 

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