Marco Battaglia è un giovane pneumologo, lavora all’ospedale Cervello di Palermo e qualche mese fa ha chiesto di potersi dedicare ai malati di Covid. Il suo nome, a settembre scorso, diventò virale sui social per via di un post, nel quale il dottore Battaglia scriveva che non sarebbe andato a mangiare una pizza neppure se a invitarlo fosse stato Belen in persona.
“A distanza di mesi e vista la eco avuta dal mio post, dico che io non ho nulla contro chi va in pizzeria. Se le regole di chi ci governa lo consentono, la gente deve sentirsi libera di andare. Quando ho scritto quel post vedevo crescere la pressione ospedaliera, vedevo morire gente, curavo giovani in condizioni serie. Mi sono chiesto: perché non possiamo rinunciare a qualcosa che non è necessaria? Mi rendo conto che anche portare il mio cane al parco non è necessario ed espone a rischi, potrei lasciarlo in giardino. Ogni tanto però lo portò nelle aree cani a scorrazzare insieme ad altri cani. Un anno di restrizioni sono dure, ma il buon senso deve esserci sempre.”
Lei lavora in un reparto cruciale per la Sicilia intera. Ci racconti di questi mesi
Sono stati mesi terrificanti ed è il peggiore momento che la Sicilia abbia mai passato nella sua storia a livello medico. Solo nel nostro reparto abbiamo avuto un numero enorme di morti negli ultimi cinque mesi. È veramente difficile lavorarvi sia dal punto di vista emotivo che professionale, ma si va avanti con la certezza che potendo tornare indietro lo rifarei.
Quali le maggiori difficoltà?
A livello medico la consapevolezza che al momento non vi è una cura efficace. Non esiste una terapia specifica e risolutiva. La grande speranza è riposta nel vaccino, che ovviamente io ho già fatto. Umanamente l’occorrenza più dolorosa è il non potere avere un rapporto umano reale con i pazienti. Siamo chiusi dentro tute e strati di protezione, che anche se un paziente ci tossisce addosso non può succedere nulla. Comprende però che la fantomatica mano sulla spalla, di cui tanto hanno bisogno i malati di Covid, è proprio difficile da mettere.
Un momento difficile?
Ce ne sono stati tanti. Siamo medici e cerchiamo di rimanere lucidi e forti. Però la vicenda di un mio amico carissimo, 45 anni, molto grave, mi ha provato. È attualmente ricoverato in respirazione extra-corporea che, per intenderci, è un passo successivo all’intubazione. Spero con tutto me stesso che ce la faccia. Questo per dirle che il Covid non guarda in faccia nessuno, neppure i quarantenni in buona salute, ammesso che questa retorica della buona salute abbia ragione d’essere parlando di Covid.
Molti giovani che si ammalano quindi?
Assolutamente sì. Dopo le feste di Natale abbiamo ricoverato diversi ventenni, che dichiaravano di aver fatto feste con amici. Attualmente abbiamo un venticinquenne in rianimazione. Anche lui, come si usa dire, sano come un pesce. Il dato più allarmante però riguarda i sessantenni. Sono la fascia d’età più colpita e con un tasso di mortalità davvero preoccupante. Ho curato sessantenni dall’ottima forma fisica, gente ancora attiva dal punto di vista lavorativo. Ne sono morti tanti, troppi. Pensavamo potessero farcela. Dopo quattro o cinque giorni ci lasciavano. É stato ed è devastante.
I contagi in Sicilia calano, lei è ottimista?
Nel nostro reparto la pressione non si è fermata. Rallentata sì, ma non arrestata. Siamo al completo e diciamo che se nelle scorse settimane avevamo una decina di persone in barella al pronto soccorso, oggi ne abbiamo cinque o sei. I numeri comunque sono ancora alti e preoccupanti.
Cosa vede in fondo al tunnel?
La luce del vaccino di massa, che spero possa realizzarsi in tempi brevi. La fiducia nel buon senso della gente ma anche delle istituzioni, che devono assolutamente individuare i luoghi davvero aggreganti e chiuderli ad esempio nel week end, perché senno uscirne sarà davvero dura.
In questi mesi ha avuto dei timori, dei cedimenti?
Sinceramente no. Sono abituato a lavorare in ambito di Pronto soccorso, reparto davvero complesso. L’esperienza in centro Covid è pesante ma forse meno rispetto al Ps. Ho sempre confidato nei dispositivi di protezione individuale, che indossiamo in maniera davvero rigorosa. Penso che sia più difficile contagiarsi in un reparto Covid, dove l’attenzione è massima, che non altrove. Per il resto, come le dicevo lo rifarei. Ho voluto essere parte di questo staff con convinzione e con la stessa determinazione continuerò questo percorso finché sarà necessario.