Ventisette anni fa morivano i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. Della strage di Capaci si è detto tanto, in termini di cronaca, pareri, interpretazioni. Per ricordare quel giorno, abbiamo voluto intervistare una persona vicina ad A tutta Mamma. Rosaria Cascio è un’insegnante con la passione per la scrittura e il fuoco vivo della legalità, che trasmette ai suoi studenti. Nel 1992 era appena una ragazza, ma aveva già le idee chiare. Il suo impegno per la legalità era concreto, tanto per lei quanto per quella parte di Palermo, che aveva scelto, con fermezza, di stare dalla parte giusta. Era un tempo di sangue, paura, silenzi. Eppure, in quell’apparente inverno, iniziava a percepirsi sentore di primavera. Ecco il racconto di quegli anni.
rosaria, sei stata una ragazza palermitana degli anni ‘90. Anni di sangue, stragi, paura. Com’era PALERMO all’epoca e quanto è diversa oggi?
Quella di quegli anni era una Palermo che ancora non era stata ferita al cuore. Questo accadrà a partire dalla strage di Capaci che considero, quindi, il vero spartiacque tra un “prima” ed un “da ora in poi”. Ma già negli anni ‘90 il clima era molto teso perché la mafia continuava a sparare e non si trovava una via compatta e comune di lotta. Di questo se ne percepiva la pesantezza. Erano, però, anche gli anni della cosiddetta “Primavera di Palermo” e tantissimi cittadini stavano recuperando la voglia di impegnarsi per la propria città esercitando il diritto alla partecipazione. Quelle bombe, anche quelle fuori Palermo, avevano determinato un effetto impensabile per una mafia sanguinaria, incapace di lungimiranza e senza una visione strategica. La società civile si era messa in moto e si cominciava a considerare l’importanza di un’unica strada comune di contrasto alla criminalità, che comprendesse non soltanto la via giudiziaria e repressiva ma anche quella culturale, sociale, economica e politica. Anni tremendi ma entusiasmanti. Anni di paura ma di resistenza condivisa. Si susseguivano le riunioni a cui partecipavo con entusiasmo (Comitato dei lenzuoli, Palermo anno uno, le riunioni al centro sociale S. Saverio, Le donne del digiuno) convinta, insieme a migliaia di altri cittadini in prevalenza giovani, che non era più il tempo di starsene chiusi nei propri egoismi. Anni lontani dalla situazione attuale in cui, soprattutto nei più giovani, prevale una componente di estemporanea partecipazione a manifestazioni di piazza alle quali, però, non seguono sovente le organizzazioni di resistenza civile. Gli adulti, poi, sono disillusi rispetto all’efficacia dell’impegno. Percepisco, a tratti, la voglia di combattere per la costruzione di un presente più giusto ma, nella genericità del quotidiano, un interesse maggiore per le proprie cose e i propri interessi. La lotta alla mafia, per la società civile, sembra ferma ad un like su fb. Si è più spettatori che attori protagonisti. A volte comparse ma senza più quel progetto unitario e comune che ci aveva unito negli anni delle bombe.
Dov’eri quel 23 maggio 1992? Ti aspettavi quella brutta notizia?
Era un sabato pomeriggio e mi stavo recando ad una festa di compleanno. Niente faceva pensare a quanto sarebbe accaduto ma il ricordo della notizia data dalla giornalista al TG1 è nitido. Non era soltanto lo sconvolgimento per l’uccisione di un uomo, di un magistrato, di un simbolo importante della lotta alla mafia. Era il modo in cui tutto questo stava accadendo che mi stava provocando tremore nelle gambe. E poi quell’autostrada saltata in aria! Una via a me molto familiare dato che la percorrevo spessissimo per andare nella villetta di campagna della mia famiglia. Non ne ritrovavo i punti di riferimento, non capivo nemmeno dove, in quale punto preciso di quell’autostrada stavano ammassate le carcasse dell’asfalto e delle auto. Tutto questo era successo. Nonostante il fatto che il mio impegno fosse molto significativo sul fronte dell’antimafia sociale e culturale, non pensavo minimamente che sarebbe potuto accadere tutto ciò. Ma i mesi successivi mi fecero passare repentinamente dallo stupore alla serietà dell’impegno. Percepivo con nettezza che era tempo di schierarsi ed anche in fretta. Continuai a farlo ma con molta più determinazione e fui tra le protagoniste di quegli anni. Il mese dopo, era il giugno del 92, fui io a leggere un mio documento, a nome di tutto il movimento civile che si era creato, nell’aula magna della facoltà di ingegneria di Palermo. Ricordo che lo scrissi di getto. E non cambiai una virgola!
Tra i giovani di allora esisteva una coscienza antimafia?
Come sempre c’erano gli spettatori che facevano il tifo, c’erano gli spettatori che, invece, si limitavano ad assistere allo spettacolo. C’erano quelli a cui non importava nulla e continuavano nel proprio quieto vivere, pure se nella paura che riguardava tutti. Ma c’erano anche tantissimi che non ci davamo pace e non volevamo rassegnarci all’evidenza dei fatti. Palermo era davvero nostra, e non di Cosa Nostra! Lo abbiamo dimostrato con le catene umane, con gli appelli alla partecipazione e con il sostegno ai magistrati, Borsellino in testa, impegnati a raccogliere il testimone di un testimone della lotta alla mafia con cui avevano anche condiviso storia e strategiche visioni. La coscienza antimafia, in molti, era fortemente radicata tanto da determinare una sommossa di massa. Basta rivedere le immagini aeree della Rai, che riprende i cortei e le manifestazioni a Palermo. Migliaia di mani unite in forma di catena umane che collegavano il palazzo di giustizia alla prefettura. C’era gente di tutte le età ma i giovani, e persino i bambini, erano presenti. E c’era pure P. Puglisi con i piccoli di Brancaccio!
Oggi si organizzano convegni, parate, slogan antimafia. Nel 1992 com’era la situazione?
La vera stagione dell’impegno è iniziata all’indomani delle stragi. Ogni attività che si realizzava era ripiena di senso e di alto valore. Si costruiva una coscienza antimafia, si dava forma ad una democrazia partecipativa che vedeva i palermitani uscire dalla comodità delle proprie case. Oggi, a poco a poco, si è sostituito a questo la retorica, la vuotezza e la ripetitività dei contenuti. Parate, modi di dire inconsistenti e inespressivi. Oggi l’antimafia deve riorganizzarsi e ripensarsi. A partire, secondo me, da alcuni pilastri fondativi il primo dei quali, a mio parere imprescindibile, è la gratuità assoluta delle azioni. Troppi soldi girano intorno alle associazioni antimafia che, chiaramente, pur avendo finalità di lotta comune, restano divise negli interessi ad accaparrarsi quel finanziamento o quel contributo. Troppi esperti che si muovono soltanto se garantisci loro almeno un gettone d presenza. A me, che giro tantissimo l’Italia data la mia formazione con padre Puglisi, quando mi invitano per raccontarne la storia e soprattutto il metodo che ho specificatamente indagato, chiedono spesso a quanto ammonti il mio compenso! Quest’inverno ho riso, incredula, ad un assessore di un Comune del milanese il quale voleva sapere quanto avrebbe dovuto mettere in delibera. Ho risposto che il mio compenso era “un grande grazie!” L’ho sbalordito. Era abituato ad altro! L’antimafia va rifondata, ne sono convinta. Niente soldi e vediamo chi resta in campo! Soltanto chi vuole cambiare e sconfiggere la mafia. Agli altri fa comodo lucrarci sopra. Io sono della scuola puglisiana e con lui, a dispetto di tanti che oggi se ne dicono prosecutori nelle cui tasche girano molti soldi, la gratuità era una condicio sine qua non!
un omicidio al giorno e la logica del coprifuoco? l’omertà della gente comune era reale o solo esagerazione mediatica?
In certi quartieri come Brancaccio questa del coprifuoco fu la logica degli anni ‘80. Più di due morti al giorno, una carneficina. Era in corso una guerra di mafia e poco importava, secondo me, se erano morti di sangue mafioso. Il terrore correva sulla schiena di tutti. L’omertà è una dimensione che nasce dalla paura. È una risposta immediata e di sopravvivenza. Non mi sento di liquidare con una semplice condanna chi sceglie di essere omertoso. Dov’era lo Stato a Brancaccio quando arriva Puglisi, dov’era lo Stato a difendere i cittadini di serie B di certi quartieri abbandonati e senza una presenza di scuole e di servizi pubblici? Cosa rappresentava lo Stato per quella gente? I processi di riappropriazione della propria dignità di uomini e di donne passano anche da questo. In assenza, si scegli l’omertà e la conservazione dello stato delle cose. Di questo si è nutrito certo cinema che ha dipinto con tratti persino nostalgici personaggi terribili come i boss mafiosi. L’abbandono di una scelta omertosa va costruito sostituendo alla rassegnazione la speranza, alla sudditanza criminale la coscienza dei diritti. E poi voglio vedere se si rimane omertosi o se si sceglie di difendere la libertà! E comunque, non è una scelta che accetto di fare. L’omertà va combattuta con la costruzione di una coscienza civile che deve partire dalle scuole in cui vivono i nostri giovani. Non secchioni dobbiamo creare, non scolari bravi in italiano ma incapaci di leggere la realtà. I ragazzi delle nostre scuole devono decidere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello e il brutto. Devono decidere da che parte stare. Sono teste pensanti e devono essere educati alla coscienza critica. A dispetto di chi, anche in questi giorni, sta cercando di mettere il bavaglio agli insegnanti e agli studenti!
Quale il tuo ricordo di Falcone e Borsellino? I giovani di allora li conoscevano e li stimavano?
Di Falcone non ho alcun ricordo perché non l’ho mai conosciuto personalmente. Ricordo il clima di diffidenza che lo avvolse negli ultimi anni del suo impegno lavorativo, a partire dalla decisione di andare a Roma. Di Borsellino, invece, ho un nitido ricordo di una sera estiva che precedette di poco la sua morte. La famosa sera in cui proprio lui riunì tutta la società civile nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo. Rimasi tutto il tempo ad ascoltarlo posizionata esattamente dietro alle sue spalle. Ricordo le sigarette accese e spente per poi riaccenderne altre. In un susseguirsi continuo di sue parole, inframezzate da lunghe e ripetute pause, e di applausi. Neanche una lacrima ma uno sguardo, il suo, quasi perso nel vuoto, come se stesse parlando in presenza di tutti i suoi amici morti nel sacrificio di sé e per la nostra libertà. E non solo Falcone. Ma tutti, tutti gli altri. Quell’uomo che, insieme a tanti altri magistrati presenti, era prima irraggiungibile perché sempre circondato da schiere di guardie del corpo armate, era lì, alla portata di tutti. Nudo ed inerme insieme a noi. Questo lo ha reso uno di noi. E noi come lui, compagni di una comune lotta. Il sacrificio di tutti loro ha reso ancora più validi i valori che a loro sopravvivono. I corpi muoiono per natura. Chi uccide decide quando. Ma i valori sono eterni. A noi resta il compito di dare loro una forma attuale.
La foto di copertina è di Melania Messina