Mari Albanese è un’insegnante di sostegno. Nel suo mestiere ci mette vocazione, passione e dedizione. Per dirla con una frase: Mari non fa l’insegnante ma è un’insegnante. Alla primaria Rosolino Pilo di Palermo da un mese si confronta con la ripresa scolastica al tempo del Covid. Uno scenario incerto, che si scrive giorno dopo giorno, anzi campanella dopo campanella. Nel caso degli studenti con disabilità le regole di contenimento della pandemia sono ancora più difficile da far applicare, questo, tra le altre, anche per ragioni essenzialmente pratiche. Eppure si deve andare avanti. Le insegnanti, un po’ come le mamme, trovano chiavi per qualsiasi serratura, parole per risolvere qualsivoglia rebus e soluzioni anche agli indovinelli più difficili. Abbiamo chiesto a Mari di raccontarci di questa difficile ripresa. Di farlo di cuore, di pancia e di testa.
La didattica ai tempi del coronavirus è complessa, ancor di più per gli insegnanti di sostegno. Un primo resoconto?
Questo primo mese di scuola in realtà somiglia ad una grande prova collettiva di tutto il personale scolastico. Una scuola che sta cercando di reinventarsi e fare del proprio meglio in un momento delicato che ancora stentiamo a comprendere. La Arendt sosteneva che una fase storica si inizia a capirla solo quando avviene la sua cristallizzazione, fino a quel momento la ragione si poggerà erroneamente su vecchie strutture che non sono in grado di spiegare la drammaticità del tempo attuale. Ecco, io la penso così, questo tempo saremo in grado di giudicarlo quando tutto sarà passato e quando conteremo le cicatrici emotive che ci ha procurato. Più che la didattica ad essere stravolti sono i rapporti umani, ed è un dolore difficile da spiegare, soprattutto per noi insegnanti di sostegno. Il nostro lavoro in classe molto spesso si differenzia, segue sentieri diversi, ha uno sguardo fin troppo umano ed emotivamente intenso. E posso affermare senza paura che il Ministro non ha palesato la giusta attenzione nei confronti della cultura della disabilità e dell’inclusione. Come sempre è il corpo docente che mette in atto strategie per arginare i rischi di ferite profonde che possono scalfire le sensibilità dei nostri alunni.
Quale è la differenza più significativa rispetto ai tempi “normali”?
Intanto vedere i nostri alunni distanti tra loro e da noi, con le mascherine e con quel senso di responsabilità che commuove. È come se fosse cambiato tutto all’improvviso senza possibilità di narrare questo cambiamento. Per noi insegnanti di sostegno è tutto davvero complicato. L’empatia, quella relazione d’aiuto insita nel nostro lavoro deve essere ricomposta a partire da una nuova prossemica. Il contatto fisico deve essere sostituito dalla potenza dello sguardo, da carezze a distanza. Stiamo sviluppando un nuovo linguaggio, giorno dopo giorno, ma non è semplice. Non lo è per noi né per gli alunni con disabilità. Noi stiamo a contatto per ore in un rapporto uno ad uno, tenendo le mascherine o le visiere anticovid, le DPI, una tortura. Alla fine della giornata molte colleghe accusano mal di testa e problemi respiratori. Come rimanere sospesi in una bolla. E non ci sembra che il Miur abbia considerato questo aspetto, non ci pare che ci sia stata un’attenzione reale nei confronti del nostro lavoro.
Gli studenti che lei segue come stanno vivendo questa nuova situazione?
I bambini ci stanno dimostrando tutta la loro grandezza umana. L’alunno che seguo era abituato a “saltarci” tra le braccia, a comunicare sostituendo le parole che ancora non affollano il suo vocabolario, con baci e carezze. Ed ora ci stringiamo ad un metro di distanza, lo ha compreso che dobbiamo stare attenti e che si tratta soltanto di un momento di passaggio (speriamo). La responsabilità eccessiva che stiamo chiedendo ai più piccoli a cosa porterà?
Lei come la sta vivendo?
Come chi deve godersi fino all’ultimo minuto di scuola, con la paura di poter ritornare alla didattica a distanza. Con la frenesia di far tutto in tempo e il prima possibile. Aleggia nel mondo della scuola un “non si sa mai” che mette ansia. Siamo davvero in trincea, ma il nostro dovere è quello di esserci e di lavorare nel migliore dei modi. Però adesso vorrei parlare da precaria, senza di noi la scuola non sarebbe potuta partire. Al di là dei facili proclami le assunzioni in Sicilia sono state e continuano ad essere ridicole. Mi sento e, come me migliaia di colleghe, carne da macello. Mandate in prima linea senza scudi e protezioni. Senza sicurezza per il nostro futuro. È umano?
Nel mondo della scuola cosa ci sta insegnando il Covid?
Ad essere umani, ci sta ricordando tutta la nostra vulnerabilità e caducità. Ma ci sta imponendo un profondo senso di responsabilità. Io non mi sento una semplice maestra che svolge il suo lavoro, mi sento parte integrante di un sistema che oltre alla didattica deve saper volgere il suo sguardo ad un mondo complesso che va decifrato e consegnato ai nostri alunni, perché la conoscenza domani dovrà camminare al fianco di un’intelligenza emotiva e di un pensiero divergente che avremo avuto la capacità e il coraggio di sviluppare nei nostri alunni.
Grazie Mari e ad maiora!