Da bambina, poi adolescente, avevo una cameretta minuscola di cui andavo fierissima. In quella stanzetta lunga, piccola e stretta riuscivo a fare entrare tutto il mio mondo: c’era, ovviamente, un armadio pieno di ogni must have ottantino e novantino, i cui cassetti aperti servivano a bloccare la porta per non fare entrare nessuno; c’era il poster di Dylan McKay, a grandezza naturale, che campeggiava sul retro della porta; c’erano due mensole, una adibita all’esposizione di tutti i gadget ad alto tasso chimico acquistati con “Cioè” e l’altra adibita all’esposizione della mia collezione Book di Dylan Dog; al di sotto delle mensole, lungo tutta la loro lunghezza, c’era il letto che aveva la testa sotto la finestra e i piedi attaccati all’armadio; di fianco al letto, il mio mitico totem di cubi di legno, del tipico arredo anni ’80, che io avevo riempito di libri e diari segreti; e poi basta, non c’era nient’altro, giusto lo spazio per mettere in fila indiana me e, al massimo, altre due amiche.
Io, Jane Austen, la Deledda e Anna Frank
Ma, dal mio punto di vista, quel poco era tanto e quel di più di cui necessitavo, riuscivo a farlo entrare grazie alla lettura dei libri comprati a casaccio, con le 1.000 lire di turno, nell’edicola poco distante da casa mia. Mi incuriosiva leggere ogni cosa, dalla tradizionale Jane Austen alla più impegnata Grazia Deledda, dalla comicità di “Parola di Giobbe” allo strazio del libro “Cuore”, dal locale Pirandello al lontano Bulgakov, dalle letterine d’amore su “Cioè” agli amori e misteri di Dylan Dog.
Ogni lettura, fuor di retorica, mi permetteva di viaggiare lontano, al modico prezzo di 1.000 lire, ma anche meno, e nella mia modesta biblioteca non poteva mancare un grande classico, se così si può definire “Il diario di Anna Frank”.
So che sembra assurdo, ma mi rispecchiavo molto in Anna Frank: entrambe eravamo in quella fase né carne né pesce, che anticipa l’adolescenza; entrambe avevamo un diario segreto in cui sfogare gioie e dolori di quella fase ibrida (addirittura, per un periodo, imitando Anna Frank, esordivo sul mio diario segreto con “Cara Kitty”); entrambe scrivevamo i nostri sfoghi dal nostro piccolo guscio, con la differenza che io, dalla mia piccola camera, ero libera di uscire, lei dal suo rifugio no.
Mi sentivo come Anna Frank
E tutti sappiamo il perché. Anche io ne ero a conoscenza, ma ho sempre rifiutato i motivi per cui Anna Frank fosse nascosta insieme alla sua famiglia e, ancora di più, ho sempre rifiutato quel terribile finale, perché ciò che a me “egoisticamente” interessava era il racconto adolescenziale del suo amore e odio nei confronti della sua famiglia o dei dubbi amorosi verso Peter e come lei cercasse di affrontarli e viverli, in un continuo confronto con la mia situazione adolescenziale. Quel finale brusco, poi, mi ha sempre lasciata con una miriade di “perché?” e “chissà?”, come se la mia priorità fosse capire in che modo Anna Frank avesse potuto risolvere i suoi travagli esistenziali “tipici” da 13enne, senza minimamente considerare le folli motivazioni storiche per cui Anna Frank andasse incontro all’inferno.
L’epoca dorata degli anni ’80/’90
D’altronde, ero una bambina, forse un pò ragazza, e vivevo nell’epoca dorata degli anni ’80 e dei primi anni ’90, quelli in cui ci si vestiva malissimo e ci si muoveva spensieratamente, quelli in cui la guerra veniva solo studiata a scuola e la paura del diverso, con annessi fomentatori, non esisteva affatto.
Venticinque anni dopo, mi ritrovo nuovamente con “Anna Frank”, questa volta sotto forma di graphic novel, nella bellissima rilettura a fumetti, realizzata 70 anni dopo la pubblicazione dell’originale Diario, dal regista israeliano Ari Folman, insieme all’illustratore David Polonsky. In venticinque anni (e qualcosa in meno) è cambiato tutto: la mia cameretta è diventata un bagno e io sono diventata una mamma; le turbe adolescenziali hanno lasciato il posto alle responsabilità genitoriali; le 1.000 lire non esistono più, ma qualche libro lo compro ancora e, a volte, riesco anche a trovare la lucidità mentale per terminarlo. Pertanto, da adulta consapevole, anche il mio approccio nei confronti di Anna Frank è mutato.
Il regalo del Diario a mia figlia Anna
Quando, l’anno scorso, in occasione della Giornata della Memoria, ho comprato il fumetto di Anna Frank, la mia intenzione iniziale era di leggerlo a mia figlia, che (chissà perché) porta il suo stesso nome. Ma la mia di Anna, con i suoi 7 anni, difficilmente avrebbe compreso il contenuto del Diario. Eppure, qualche giorno fa, seduta sul divano, di fianco alla mia quasi grande 9enne, ho sfogliato insieme a lei le illustrazioni ironiche, anche comiche, ma sempre molto fedeli alla realtà dei fatti e al diario originale. Benché io abbia tentato di anticiparle il contenuto del diario, mi sono resa conto che durante la lettura, il mio tono di voce cambiava, si faceva più arrabbiato, scatenando così le inevitabili domande di mia figlia, a cui spesso non sono riuscita a dare una risposta adeguata. Anna, come me da piccola, a volte si è ritrovata negli atteggiamenti della sua nota omonima, ma le immagini l’hanno spesso indotta a porsi delle domande che io, venticinque anni fa, non mi ero neanche lontanamente posta.
Non viviamo più nei mitici anni ’80 e ’90, ad oggi assistiamo all’esodo di famiglie, di ragazzi senza famiglie, di mamme con bambini, che sfuggono da una terra maledetta dalle guerre, ma anche dalle persecuzioni fisiche e psicologiche. Oggi, tutto ciò che di male l’uomo può produrre, non è lontano da noi, ma intorno a noi. Oggi ci sono bambini, come la mia Anna, che sono testimoni del nostro tempo e, per fortuna, si pongono delle domande. Ancora oggi, purtroppo, ci sono tante Anna Frank che sono costrette a scappare e nascondersi, con la differenza che, dall’altra parte, potranno trovare la parola “accoglienza” e non la terribile via d’uscita della “soluzione finale” adottata dalla ferocia nazista.
Oggi noi genitori dobbiamo leggere il Diario di Anna Frank ai nostri figli, lasciando che ci pongano delle domande, cercando di dar loro delle risposte; l’importante è parlarne, non dimenticare, non ricadere nell’assuefazione all’indifferenza e nella ricerca di un capro espiatorio dei Mali del mondo, perché noi abbiamo la soluzione: essa è la conoscenza e la consapevolezza. Bambini consapevoli, diventeranno adulti consapevoli, e noi abbiamo il dovere di aiutarli a sviluppare un pensiero consapevole.