C’era la mitologia di Battiato, io ero una ragazzina degli anni ‘90 e non capivo bene. Né la mitologia, né Battiato. A quel tempo quella poteva essere una colpa. La musica di allora era il ruggito di tanti leoni e di tante leonesse. C’era posto per tutti: dai Take That agli Oasis, dai Backstreet Boys ai Radiohead. Erano gli anni degli evergreen: Elton John, Phil Collins, Sting e di nuovi miti pop, incorniciati da intramontabili colonne sonore. Bryan Adams con il suo Robin Hood, che in realtà aveva un titolo ben più articolato, Everthing i do, i do it for you (detto d’un fiato), Whitney Houston e quel gorgheggio senza fine in I will always love you. C’erano George Michael, Sidney O’Connor qualche rigurgito dei Duran Duran. Andava pazzamente di moda l’Irlanda, con certi talenti compresi del tutto o solo a metà: gli U2, i Rem, i Corrs, i Cranberries con quel geniaccio di voce e talento sregolato di Dolores O’Riordan. Il pop estremo incontrava l’alta qualità su palcoscenici che diventavano altari di musica: il Festivalbar, il Festival di Sanremo, Pavarotti&friends. In Italia gli appassionati sbarazzini, come ero io a quindici anni, coltivavano sogni con Antonacci, Ramazzotti, con Raf, che, tra le altre cose, era anche un ragazzo bellissimo, con il “dolcissimo amore” di Irene Grandi, la Cara Valentina di Gazzè e poi Sole cuore e amore, Marco se n’è andato e ci metto pure il clan dei fiorentini, Vallesi e Masini, che di talento ne hanno dimostrato.
Poi c’erano quelli raffinatissimi, quelli che, se volevi darti le arie, bastava sciorinare i loro versi, un paio di titoli dei loro album, ed eri per direttissima un intellettuale della musica. Parlo di Fossati, Guccini, De André, Capossela e in testa alla corsa solo lui, Franco Battiato. Il siciliano, anzi “u catanisi”. Ed a me Battiato non piaceva. Per niente. Non lo capivo, non intrecciavo le sue corde alle mie. Non potevo farci nulla. La comitiva di amici lo idolatrava, ricordo pure i pellegrinaggi verso le mete siciliane dei suoi concerti. Niente, Battiato non faceva per me. Neppure “La cura” che é l’inno di tutti gli amori, mi faceva battere il cuore. Diciamo che non immaginavo di diventare l’essere speciale di nessuno. Gli preferivo di gran lunga Napulé di Pino Daniele, che, pur dichiarando amore a una città, per me si calava a pennello con la più suprema forma di sentimento, alla quale potessi anelare.
Battiato e la sua rivoluzione
Passarono gli anni, mi trasferii a Roma e frequentai alla Sapienza un master in comunicazione e critica della musica. I professori erano nomi di prima grandezza. Lí iniziarono non solo a parlarci di Battiato, ma anche a farcelo studiare. Quei suoni elettronici, ai quali la sua musica ci ha abituati, erano una rivoluzione senza precedenti. Conobbi la musica di Stockhousen, grande amico e “complice” di Battiato, a cui dedicai addirittura la tesi di fine corso. Storie che mi folgorarono, perché compresi che di artisti bravi ve ne sono tanti, di genii invece davvero pochi. Sempre a Roma conobbi un collega, diventato poi un carissimo amico, Antonio Ranalli. Nel nostro primo incontro, quando mi presentai come siciliana, la sua replica fu: “Caspita, come Battiato.” Da lí il racconto del Battiato umano, della brava persona, di un viaggio in aereo con “u catanisi” che per certi versi cambió la vita di Antonio.
“Che figata!”
Pensai.
Stranizza d’amuri
Passarono altri anni e conobbi quello che sarebbe diventato mio marito, che quando si presenta, dice nome e cognome ed aggiunge fiero che é nato e cresciuto a Catania. Ed anche lui, dopo poche battute, mi fece presente che veniva dalla città dell’Etna, del “Liotru” e di Franco Battiato.
Insieme ascoltammo tante e più volte “Stranizza d’amuri”, che ha quell’incipit no sense, che parla di carritteri che fanno i loro bisogni per strada e di mosconi che, come si dice in Sicilia, vi si “appaddanu” di sopra. Che di poetico non avrebbe nulla, se non l’avesse scritta Battiato, se non vi fosse quel tappeto di suoni che mettono i brividi e quel cantilenare morbido del maestro, “du catanisi”.
La meraviglia di Milo
Passarono ancora altri anni e arrivó l’illuminazione. Mio marito mi portó per la prima volta a Milo ed esordí: “Oggi ti faccio conoscere il posto bellissimo dove vive Franco Battiato.”
Milo non é un luogo, ma una magia. È una terra leggera, a metà strada tra il mare e l’Etna. Ha una piazza che sembra la terrazza più bella dell’umanità: a nord guarda il vulcano, a sud il golfo di Catania e dirimpetto ha Taormina, la nobile, la sofisticata, la bellissima.
Se a Milo non siete mai stati, dovete rimediare. Lí senti il profumo di un tempo diverso: la cenere e gli agrumi, le granite e le paste di mandorle, fatte come oggi non usa più nel resto del mondo. A Milo, di tanto in tanto, senti muovere il Vulcano, magari sei seduto su una panchina di pietra in piazza e parte il vibrato. Sussulti ed ecco qualcuno del posto a rasserenarti: “Nenti è. É l’Etna c’arridi” (Non è nulla, è solo l’Etna che ride).
Milo è odore di terra e di mare. Sapore di corbezzoli, di tuppo di brioche da affogare d’un colpo nella granita alla mandorla, di festa di paese e fritto di crespelle di riso. La chiesa di Sant’Andrea é aperta fino a tardi ed ha le porte spalancate, cosicché chi entra può nel frattempo godersi il panorama. Poi bevi un sorso d’acqua di fonte e in sottofondo ascolti gli anziani, che parlano la lingua misterica della gente dell’Etna. Passeggi tra i vigneti del Nerello, ingoi un acino aspro ad occhi chiusi e pensi che la vita potrebbe pure finire lì e la fine ti coglierebbe felice. A Milo ho coltivato l’amore che la gente ha avuto ed ha per Battiato. Di lui, come di Lucio Dalla, parlano tutti. I ristoratori, il prete, il farmacista del paese, perfino il vignaiolo. Tutti a raccontarlo come una brava persona, forse un tantino bizzarro. Qualcuno a descrivere simpatiche leggende, qualche altro a decantare la villa del maestro, come uno dei posti più belli del mondo: “Lui si siede al tramonto nel punto più alto, da una parte vede il mare, dall’altra vede l’Etna e scrive i capolavori che la gente conosce”. Così mi raccontó una volta un cameriere panciuto e rubicondo, che giurava di aver banchettato tante volte con il maestro. Chissà se era vero?
Ad ogni viaggio verso Milo, che é diventato un buen retiro, ad ogni giro per le sue campagne, ho sempre dedicato un pensiero a Franco Battiato. Qualche mese fa ho anche sfacciatamente chiesto al farmacista del paese la strada verso la sua villa: volevo capire dove fosse quel posto, che custodiva un genio, che a me in realtà non è mai piaciuto del tutto, ma che mi affascina tanto.
Un paio di curve a gomito, di lato il muro di pietra lavica, di fronte il celeste spietato del mare e lí la casa di Battiato. Io che faccio un sorriso e provo a immaginare quale sia la vita di ogni giorno di un tizio, che scrive strofe prese da chissà quali pensieri, che ha rivoluzionato la musica e che ha scelto di vivere in un luogo sospeso tra la terra e il paradiso.
Ps: Ho voluto scrivere queste righe in onore del maestro all’indomani del dí della celebrazione. Le scrivo da amante della musica che di Battiato peró ha conosciuto e capito poco. Le scrivo con l’orgoglio di chi, a petto largo, può dire: sono siciliana, come l’Etna, come il mare, come l’odore di cose buone, come certi filosofi e come il ricordo della Magna Grecia, come Falcone e Borsellino, come don Puglisi e Livatino, come Camilleri, Pirandello, Sciascia, Verga, Quasimodo, Guttuso e come Franco Battiato.