Le Iene di Mediaset puntano un riflettore sui dietro le quinte, dai toni assai sbroccati, di un celebre regista televisivo della Rai. Al centro della vicenda Michele Guardí, nome storico dell’intrattenimento della tv di stato, con una storia ultra quarantennale in casa Rai. Guardí é sicuramente uno dei registi televisivi più seguiti e collaudati ed é una firma cult nell’ambito dell’intrattenimento familiare, dai toni buoni e confidenziali, dalle ambientazioni quasi retró. Eppure i dietro le quinte pizzicano il regista in un piglio tutt’altro che da focolare domestico. Parole volgari, toni accesi, insulti omofobi e parolacce che rispolverano vecchi cliché. Il commento generico di parte del jet set: “Di cosa ci stupiamo, in tv funziona così!”
Ci chiediamo anche noi, é possibile che questo sia il sistema che gira intorno a certi ambienti? Che urla, improperi e parole forti siano “normali” e se così fosse perché succede? Cosa gira intorno a questa assuefazione al registro del poco rispetto? Ne abbiamo parlato con il professore Daniele La Barbera, psichiatra e primario al Policlinico di Palermo.
Tengono banco gli audio dai toni omofobi, volgari e sessisti del celebre regista Michele Guardí. Parole forti, che però, non scandalizzano il jet set
É certamente vero che è stato sempre così – e particolarmente nel mondo dello spettacolo, per vocazione trasgressivo e poco incline a seguire regole e limiti – ma questo non può e non deve normalizzare comportamenti e atteggiamenti che infrangono il buon gusto, l’educazione, il rispetto el’etica. Credo che sarebbe occasione di progresso civile, sociale e morale se non dessimo per scontati, e dunque accettabili, l’arroganza, la supponenza e il malcostume sessisti, anche quando si esprimono solo a parole, tramite un linguaggio che tradisce però l’idea di prevaricazione da parte del genere maschile e il suo diritto ad esercitare un potere; ecco perché la violenza verbale può essere considerata sottilmente collegata alle molestie e alla violenza sessuale, rappresentandone una ineludibile premessa, e questo anche se molti di coloro che utilizzano termini e atteggiamenti offensivi non metteranno mai in pratica condotte violente o di abuso. Oggi più che mai la cultura del rispetto all’interno delle relazioni tra i generi parte quindi dalle parole che utilizziamo, soprattutto se soggettipubblici, conosciuti e famosi, e quindi inevitabilmente modelli per tante altre persone che liosservano.
A proposito del senso del grave, che misura occupa nella società odierna?
Viviamo in una società che non solo si sta trasformando molto velocemente e profondamente, ma che è anche attraversata da livelli di comprensione, di consapevolezza e di coscienza morale molto differenti. E quindi di frequente ciò che suscita un giudizio molto negativo in alcuni, viene vissuto in maniera molto tollerante e permissiva da altri. Col risultato che tendiamo a volte a essere molto indulgenti per comportamenti o linguaggi che hanno in sé qualcosa di fortemente violento, grossolano, arcaico e a sottovalutare le conseguenze – anche gravi – di parole, espressioni e discorsi che perpetuano la diffusione di un pensiero maschilista, che impedisce, a cominciare dal maschio che li utilizza, un’evoluzione sul piano cognitivo ed affettivo, tenendoci avvinghiati alla parte più rozza e incolta della natura umana.
Perché l’uomo di potere, non solo in ambito televisivo, spesso si sente autorizzato al registro dell’umiliazione
Molto dipende da come si gestisce sul piano interiore il potere che si è raggiunto e quindi, in ultima analisi, dalle caratteristiche della personalità individuale. Soggetti aggressivi, di carattere arrogante e supponente, con problemi di tipo narcisistico, ritengono che il loro potere aumenti se lo esercitano in modo da sottomettere l’altro, offendendolo, bistrattandolo e mortificandolo. Spesso si tratta di personalità insicure o disturbate che sono convinte di potere aumentare il proprio carisma con atteggiamenti psicologicamente violenti, cinici, sadici. Esemplari di questo tipo sono purtroppo frequenti e li ritroviamo dappertutto, tra politici, professionisti, gente di spettacolo e persino in ambito accademico. Ancora una volta non è raro che la società sia accondiscendente con tali soggetti; non dimentichiamo che alcuni personaggi televisivi, che si vantano di essere fini intellettuali, devono gran parte della loro popolarità alla spettacolarizzazione della loro incivile violenza verbale, non raramente condita da turpiloquio, insulti di vario genere e sessismo. Ma fare esercizio di potere, in una società che valorizzi equanimità, equilibrio, rispetto, attenzione e considerazione verso l’altro, dovrebbe significare percepire la propria responsabilità verso la collettività non solo rispetto al proprio operato e alle proprie scelte, ma anche e soprattutto per l’esempio che inevitabilmente si fornisce a chi ci sta guardando.
Avere potere non significa sentirsi libero – con modalità onnipotenti e narcisistiche – di dare libero sfogo a tutte le parti violente, immature e non risolte della propria psiche, ma, esattamente al contrario, coltivare costantemente la versione migliore di se stesso.
Torniamo al caso Guardí, cosa ci insegna questa vicenda?
Viviamo in un periodo in cui la condizione femminile, nonostante i tanti progressi sociali e culturali, è ancora esposta ad abusi e a violenze di ogni genere, piccole, grandi e a volte inaudite, di cui abbiamo continuamente evidenze, anche drammatiche. Ecco perché sarei cauto nel far passare atteggiamenti giustificazionisti, arrendevoli o addirittura accondiscendenti verso atteggiamenti e linguaggi sessisti. “Abbiamo sempre fatto così” non è mai un buon modo per favorire un cambiamento positivo e fare evolvere le persone, ma una modalità per impedire l’emergere delle parti più sane e socialmente adeguate negli individui e nella collettività. Vorrei sottolineare che in tante situazioni umane le più varie, oggi la sostanza delle cose “è una questione di parole” e la loro scelta può fare la differenza tra una società attenta e rispettosa di tutti e una società ancora attraversata da dinamiche involutive ed arcaiche, tra la possibilità di ricomprendere all’interno del proprio potere il benessere altrui e quello di utilizzarlo per vessare, vituperare e dare libero sfogo alle proprie nevrosi. Non sono per niente sicuro che la Bellezza salverà il mondo ma in compenso credo che oggi il mondo abbia un disperato bisogno di salvare la bellezza –anche quella delle parole – di riconoscerla, rispettarla e di promuoverla in tutte le sue forme. Aver cura delle parole e del linguaggio, oggi continuamente corrotti ed abusati, ha quindi un grande valore per costruire una convivenza più avanzata e rispettosa di tutti. Ecco perché non possiamo essere troppo tolleranti, non nel senso di colpevolizzare esageratamente il singolo esemplare maschile rozzamente vociferante, ma nella direzione di condannare con fermezza atteggiamenti ancora così diffusi in tutti gli strati della nostra società.