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Buon anno con una canzone sghemba, che scalda il cuore

Gli auguri e i ricordi alla fine dell’anno, sulle note di Jovanotti e Carboni

C’è una canzone sghemba, che Jovanotti e Luca Carboni cantano con piglio da fancazzisti.  É la cover di un pezzo dei Dire Straits, parte con un accordo “banale” di chitarra e poi fa così: “É quasi Natale e a Bologna che freddo che fa, io parto da Milano per passarlo con mamma e papà…”

Questa è la mia canzone di Natale da una vita, da quel tempo benedetto che è la prima gioventù. Un periodo che si rimpiange sempre, quando lo guardi da lontano. Mentre ci passeggi a fianco però te lo toglieresti di torno in fretta.

Avevo quindici anni, vivevo nel mio paesello sui colli e insieme ai miei amici di allora pensammo  di riempire quel lungo tempo di Natale di provincia con uno spettacolino nell’oratorio del paese.

La velleità era quella di imitare la comicità di Guzzanti, della Dandini, di Frassica, la musica dell’Orchestra italiana di Arbore e il genio di Tornatore.

La canzone di Carboni e Jovanotti era parte della colonna sonora dello spettacolino e la imparai a memoria nel giro di niente, lasciandomi cullare da quelle rime baciate, che parevano “cretine” a un primo ascolto, ma che in realtà condensavano il senso di tante cose.

Fu un successo, al punto che ci chiesero il bis ed anche il tris.

Ci godemmo il momento magico e iniziammo a ipotizzare progetti e successi a mai finire. Poi ci furono i soliti contrattempi di cose, parole e persone e quella bolla di magia scoppiò, lasciandoci in dote il ricordo di quello spettacolino da oratorio, della gente ad applaudire, dei nostri abiti da sera e di quella canzone di Natale sghemba, che ogni volta che la riascolto mi fa montare un brivido sopra la schiena.

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Mi torna in mente un tempo semplice

Di appuntamenti con gli amici presi con il telefono di casa, di genitori che ti imponevano “la ritirata” e guai a non spaccare il secondo. Di pomeriggi di dicembre a giocare a tombola, tabù e sette e mezzo, a passeggiare per il corso principale del paese con le guance rosse di gelo, delle soste davanti alla chiesa Madre dove rimanevamo con tutta la comitiva a discutere di politica, senza di fatto capirne un accidenti, di cinema per intenditori e di Vinicio Capossela, che, in quegli anni, se volevi capirne di musica, chissà perché, doveva per forza piacerti Vinicio Capossela. C’era quando  si rimaneva senza fare niente e in un tempo senza social, telefonini e “pay for” capitava eccome. Ed allora si ascoltava il silenzio, allenando la mente, costruendo progetti, sognando il principe azzurro, la gloria o semplicemente una bella vacanza estiva, possibilmente in crociera, come in paese facevano le pochissime persone ricche. Era il tempo della mia gioventù di provincia, che benedico sempre, perché la ricordo fumigante di calore umano, di amici e parenti a fare da bordone a un pezzo di strada che è cruciale, anche se spesso non ce ne rendiamo conto.

Il tempo di Natale era un periodo elastico

Breve quando avevi qualcosa da fare, lentissimo quando le giornate parevano fatte di niente. Era ed é il mio periodo dell’anno preferito. Le due strade principali di Casteltermini, via Roma e corso Umberto, brillavano di felicità: i negozi, tanti e carichi di gente, le luminarie dappertutto, le storiche pasticcerie dei fratelli Capodici erano un tripudio di arte e di bontà. C’erano anche le boutique di pregio, su tutte spiccavano quelle dei fratelli D’Acquisto e dei “panneri” Galione. Quindi le oreficerie piene ad uovo di coppie di fidanzati, di suocere a scegliere “l’oro pi la zita”. Poi le regine: le due chiese barocche, la Matrice e San Giuseppe, di una bellezza sconvolgente, alla quale però non facevo caso, perché ci ero abituata. Il via vai di gente allegra, con gli abiti della festa, le “guantiere” di dolci in mano, il sorriso di chi spera,  “auguri e buone feste a te e famiglia”, il freddo pungente che però, paradossalmente, a ricordarlo mi dá esattamente il senso del tepore. Il 31 dicembre era il giorno dei veglioni, che si facevano in luoghi improvvisati, garage giganteschi o sale pronte all’uso per l’occasione. Ciò non toglieva fiato alla buona intenzione di presentarsi elegantissimi al cospetto dell’anno nuovo di zecca. I parrucchieri si imbarcavano in maratone fino a sera tarda ed era un tripudio di paillettes, pellicce di visone, gioielli bellissimi e donne eleganti avvolte in nuvole di profumi francesi.

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Io sognavo che un giorno l’onore del veglione sarebbe toccato anche a me e non vedevo l’ora di diventare grande, non fosse che per quella piccina ragione.

Ripenso a queste cose, in questa fine d’anno che traballa tra incertezze colossali. Ricordo quel clima imperfetto, eppure bellissimo. Così come lo è questa canzone sghemba di Jovanotti e Carboni, che loro cantano come due fancazzisti, ma fanno finta, perché in realtà questo brano,  se lo ascolti bene, ha una melodia articolata, un bravissimo suonatore di chitarra ad eseguirla ed un testo che, in poche parole, racconta verità davvero grandi e senza tempo. La riascolto ancora e ancora perché, volendo considerare, “o é Natale tutti i giorni o non é Natale mai…”. Anche se oggi non é Natale, ma fine anno e dovremmo fare resoconti e buoni propositi, ma, parliamoci chiaro, dei resoconti e dei buoni propositi non frega niente a nessuno. Quindi semplicemente auguri, li faccio ricordando la semplicità di quel tempo di provincia, quando dal paesello non vedevo l’ora di fuggire. Quando l’aria fredda scaldava il cuore e bastava poco per dare senso a ogni cosa.

Auguri di un anno buono.

Foto di copertina di Francesco Mondello.

 

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