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Il procuratore Asaro: “La vittoria sulla mafia? Quando isoleremo socialmente mafiosi e mafiosetti”

Dall'antimafia vera a quella di facciata, dal ricordo ai progetti, una chiacchierata a tutto tondo con il procuratore Fernando Asaro

Anni fa, quando ero una giovane cronista, catapultata nelle cronache di un progetto assai arguto, il mensile S, che si occupa di inchieste sulla mafia siciliana, ebbi modo di conoscere il giudice Fernando Asaro. Era, al tempo, sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e coordinava indagini importanti, tra queste la caccia a due superlatitanti, a due “malacarne” sanguinari: Giuseppe Falsone e Gerlandino Messina (entrambi arrestati nel 2010 e condannati al fine pena mai). Nel nostro primo incontro, il dottore Asaro mi disse una frase illuminante: “Oggi lottiamo la mafia percorrendo una comoda autostrada, negli anni ’80 invece si percorreva una trazzera di campagna, di quelle accidentatissime. Il merito dell’autostrada lo dobbiamo a tanti uomini di Stato e a tante gente comune, ma in testa metto i giudici Falcone e Borsellino. Se oggi lei può scrivere di mafia in piena libertà e se io posso fare il mio lavoro così per come lo svolgo, lo dobbiamo a loro. Questo dovrebbero comprenderlo tutti. Grandi e piccini. Se oggi ci sentiamo liberi delle nostre idee, un grazie per sempre va al sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino”.

Ho conservato quelle parole nella parte più profonda della mia coscienza e cerco di ricordarmene con costanza.

Ho intervistato il dottore Asaro, oggi procuratore  a Gela, in occasione del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Una chiacchierata sulla mafia e sui suoi opposti. Sulle passerelle spicciole e sugli ideali veri. Su ciò che è stato e su quel che potrà essere.

Il dottore Fernando Asaro, procuratore a Gela

 

Dottore Asaro, cos’è la vera antimafia e cosa invece è solo un fenomeno da passerella?

Le passerelle delle ricorrenze sono una verità amara. Perché in Sicilia ci si fa belli nel giorno dei grandi anniversari: perché i riflettori sono tutti puntati, perché ci si deve affannare a mettere il proprio “presente” nel registro della cerimonia. Non dico che le grandi commemorazioni non servono e che non vi siano spiriti sinceri che vi si animino dentro.

É ovvio però che non è questa la vera antimafia.

Cos’è la vera antimafia? Anzitutto quello dello Stato, dei magistrati e delle forze dell’ordine, che devono lottare la criminalità come dovere e come diritto. Il contrario sarebbe un ossimoro. Ed è ovviamente l’antimafia dei cittadini, che sono le colonne portanti dello Stato. In questi anni ho visto nascere movimenti antimafiosi spontanei, sinceri, senza alcun secondo fine. C’erano, tantissimi anni fa, i primi giovani di Addio Pizzo, che nottetempo, attaccavano i loro adesivi in giro per una Palermo ancora mortalmente provata. C’erano studenti imberbi, che si aggregavano urlando il loro idealismo contro la Piovra mafiosa. Ho anche assistito ed assisto, ai fenomeni di presunta antimafia, quelli dell’apparire invece che dell’essere. Quelli del fare fortuna sulle ceneri di chi per lo Stato ha dato la vita. Negli anni è stato un pullulare di figure da prima pagina, di associazioni di ogni tipo, di “paladini” della giustizia. Tutto animato da buone intenzioni? In tante circostanze non dovremmo neppure chiamarla antimafia, si tratta semplicemente di opportunisti e di strumentalizzatori. Questo tipo di antimafia fasulla è anche diventata talvolta di interesse processuale, perché ovviamente si sono aperti gli occhi e si è dovuto fare luce. Quando penso all’antimafia vera mi percorre un ricordo profondo, quello dei genitori del giudice Livatino. Un padre e una madre che hanno visto trucidato il loro unico figlio ed hanno affrontato il dolore a testa alta e senza riflettori puntati. Il loro esempio mi è sempre stato da guida.

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Dottore Asaro, come era lei 30

anni fa, il 23 maggio

Ero un giovanissimo magistrato, che si apprestava a iniziare la sua carriera. Sarà stato un caso, ma ho messo piede in procura da sostituto procuratore proprio poco dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. La mia classe di concorso fu la prima dopo le stragi, capisce bene il clima di riscatto e di voglia di fare che percorreva quella generazione di magistrati.

I giudici Falcone e Borsellino, chi erano davvero?

Erano l’alternativa valida a una Sicilia devastata dal sangue e dalla mafia, che era dappertutto. Hanno avuto il merito di generare coscienze sane, in un tempo in cui scegliere di stare dalla parte sbagliata era facilissimo. Erano anche elementi divisivi. Non tutti li amavano, ma per certi versi era ovvio che fosse così, perché Falcone e Borsellino hanno rotto quell’equilibrio che, seppure nella sua drammaticità, teneva in asse una Sicilia, rassegnata a essere ostaggio di Cosa nostra.

Due magistrati che fissano l’obiettivo di dare la caccia alle cosche, in un tempo in cui la connivenza era la cifra di tutto, non potevano che creare trambusto, anche negli ambienti giuridici. C’erano gli estimatori e c’era anche chi dava loro dell’esaltato. Chi li accusava di protagonismo. Del resto sono stati due rivoluzionari e il tempo ha dato loro ragione, sebbene quella ragione sia stata pagata con il sangue.

come e quando ha scelto di stare dalla parte giusta?

Ero ragazzino, studiavo al Gonzaga. Non avevo in famiglia né magistrati, né forze dell’ordine. Mio padre lavorava in banca e mia madre era casalinga. Sicuramente mi avevano educato all’onestà,  ma della mafia non capivo nulla. Eppure a Palermo la mafia era ovunque: la respiravi nell’odore di sangue degli omicidi quotidiani. La mafia incuriosiva i ragazzi e ricordo che io volevo capirne di più. Volevo conoscere i luoghi di Cosa Nostra e mi spingevo fino a Ciaculli e Borgo Vecchio, per capire che forma avesse la criminalità organizzata. Ricordo quando, in motorino con un mio amico, passammo davanti al cadavere del sindaco Insalaco (era il 1988, Insalaco era stato sindaco di Palermo per soli tre mesi ed aveva più volte denunciato le collusioni tra mafia e politica). Ricordo quando venne massacrato il commissario Boris Giuliano, che per me era semplicemente il papà di due ragazzi che frequentavano la mia scuola. Lo vedevo accompagnare i figli  ai gesuiti. Un giorno non l’ho visto più. La mafia lo aveva ucciso e noi giovanissimi venivamo a conoscenza di questi fattacci senza alcun filtro. Era una sorta di routine morire così a Palermo. Si parlava con una tale facilità di mandamenti, che mi ero convinto che fossero delle bellezze architettoniche della mia città. La mafia era a portata di mano e allora dovevi scegliere se starle a fianco, anche tacitamente, oppure contro. Ero un ragazzino curioso, che girava in motorino per quei quartieri che oggi sono diventati meraviglie turistiche ed allora sembravano teatri post bellici. Ha presente la Kalsa, con le sue amenità? Negli anni ’80 ci voleva coraggio a farsi un giro per quelle stradine al tramonto. C’era degrado, povertà erano terre di nessuno, facili conquiste anche di piccoli predatori criminali.  Era un’altra Palermo, messa in ginocchio da una guerra di mafia alla quale la gente non faceva più caso. É stato in quel contesto, che ho maturato la mia vocazione di vita.

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Quale la scintilla che tracció la sua strada?

L’incontro con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era la primavera del 1982 e venne a tenere una conferenza  nella mia scuola. Quanto è importante la scuola per formare coscienze. Quell’uomo mi illuminó nel profondo. Pochi mesi dopo la mafia lo uccise e io quel giorno non ebbi più dubbi su quella che sarebbe diventata la mia strada.

Falcone e Borsellino invece, che ruolo hanno avuto?

Erano e sono le figure della speranza. In una terra dove si mangiava pane e mafia, dove la gente era arresa al predominio mafioso, che si esplicitava su tantissimi livelli, c’erano questi due giudici, che erano la coscienza del riscatto. È grazie a Falcone e Borsellino se in Sicilia in tantissimi hanno alzato la testa e capito che l’alternativa era possibile. Ma c’è un’altra figura cruciale di quegli anni che va ricordata, il giudice Alfonso Giordano, che ci ha lasciati da poco. É stato il primo giudice che, dopo ben otto no dei suoi colleghi, ha detto sì per istruire il Maxi processo. Una figura poco proclamata, ma cruciale per quell’inizio di cambio di rotta, che ancora deve ampiamente continuare.

 

In cosa Palermo e la Sicilia devono cambiare per far sì che il sacrificio delle stragi non sia stato vano?

Le generazioni di oggi, compresa quelle dei miei figli, possono avere difficoltà a credere che vi sia stato un tempo macchiato di sangue quotidiano, dove la conta dei morti era diventata un elenco banale, dove al tramonto, in molti quartieri della città, ci si barricava dentro casa. A Palermo ma un po’ ovunque in Sicilia, si sparava ogni giorno. La gente si era abituata. “Si ammazzano tra loro”, era questa la mentalità del tempo. Ovviamente poi ci scappava il morto innocente: il giudice, il poliziotto, il giornalista, l’avvocato, il prete. Ci si addolorava. Si scuotevano le coscienze, ma in un certo senso sembrava che tutto ciò fosse messo nel conto, fosse parte di uno status quo da accettare. Punto e basta. Perché in Sicilia c’era la mafia e bisognava tenersela buona. Oggi per fortuna è diverso. Le strade di Palermo si sono, almeno in superficie, ripulite del tanto sangue sparso, che però traccia ancora un itinerario di cicatrici profonde. C’è poi ancora quel credo mafioso sussurrato sottovoce e che deve essere scardinato. I mafiosi sono ancora esaltati e rispettati, forse più per un velo di terrore che non di reale riverenza. Chi sta dalla parte giusta è ancora definito “amico degli sbirri”. Questo lieve omaggiare e gratificare il mafioso è una chiave di continuità con quella mafia sanguinaria degli anni ’80, che se oggi spara molto di meno, ma seguita a sbeffeggiare la società con la sua tracotanza fatta di nulla. Ecco, il giorno in cui la Sicilia avrà il coraggio di isolare socialmente mafiosi e mafiosetti, il sacrificio degli uomini giusti non sarà stato vano e si realizzerà la profezia del giudice Falcone: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, un’evoluzione e quindi avrà anche una fine.”

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Quando tutti comprenderemo questo, la nostra terra e noi siciliani saremo definitivamente liberi.

Grazie dottore Asaro e ad maiora!

Oltre al giudice Falcone, nella strage di Capaci, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

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